La lezione danese e il modello dimenticato

venerdì 27 giugno 2025


Innalzare l’età pensionabile a 70 anni non è progresso, è l’ultimo respiro di un sistema che crolla. Serve meno Stato, più libertà: lo dimostrano i fatti, la storia e il Cile.

La Danimarca ha fatto notizia in tutta Europa: entro il 2040 l’età per accedere alla pensione sarà di 70 anni. Il Parlamento danese ha infatti approvato il 22 maggio 2025 una legge che innalza gradualmente l’età pensionabile statale da 67 anni fino a 70 anni entro la data prima indicata e tale provvedimento si applicherà a chi è nato dopo il 31 dicembre 1970. La riforma rispetta un sistema introdotto nel 2006, che collega l’età pensionabile all’aspettativa di vita, con revisioni ogni cinque anni. Essa è sostenuta da organismi internazionali come il Fmi secondo cui “I 70 di oggi sono i 50 di ieri”. È un primato continentale che non andrebbe celebrato bensì analizzato e compreso per ciò che realmente è: un segnale d’allarme. La previdenza pubblica, fondata sul principio redistributivo, non regge più. E per mantenerla in vita, lo Stato prolunga la vita lavorativa, togliendo ai cittadini la libertà di scegliere quando smettere e godersi la vecchiaia.

Per capire perché si è arrivati a questo punto, bisogna tornare alle origini.

Il sistema pensionistico pubblico a ripartizione è nato in Germania nel 1889, con Otto von Bismarck. All’epoca, l’età pensionabile era stata fissata a 70 anni, quando l’aspettativa di vita media era inferiore. Era un impianto pensato più per controllare politicamente la classe operaia che per garantirne realmente la vecchiaia. Il modello bismarckiano fu poi adottato da molti Stati europei, che ne copiarono la struttura senza metterne in discussione i presupposti. Con l’espansione dello Stato sociale nel Novecento, siffatto sistema a ripartizione è diventato la norma, basato su un patto generazionale implicito: chi lavora oggi paga per chi è già in pensione, con la promessa che un giorno qualcun altro farà lo stesso.

Tuttavia, come pure la storia ha ampiamente dimostrato, quella promessa si è rivelata fragile. Il crollo demografico e l’allungamento della vita media hanno rotto l’equilibrio su cui si reggeva. Sempre meno lavoratori devono sostenere sempre più pensionati, in un circolo vizioso che costringe a innalzare l’età pensionabile o a ridurre gli importi erogati. Invece di mettere in discussione il modello, i governi hanno preferito l’inerzia, nascondendo la crisi con nuovi debiti e maggiori tasse.

La trappola è evidente: più si allunga la vita, più lo Stato allunga il lavoro. In risposta, si ignorano le spese improduttive e si evita di incentivare la previdenza individuale: semplicemente, si rinvia la pensione. Ma non si può ingannare la matematica a lungo.

Un modello alternativo esiste, ed è stato sperimentato con successo in Cile, alla fine degli anni ’70. Sotto la guida dell’economista José Piñera, il paese andino ha abolito il sistema pubblico a ripartizione sostituendolo con un sistema di capitalizzazione individuale. Ogni lavoratore ha iniziato così a versare parte del proprio salario su un conto personale, gestito da fondi privati in concorrenza tra loro. Niente più promesse collettive, ma responsabilità individuale: ognuno accumula quanto versa, beneficiando di rendimenti reali e decidendo autonomamente quando ritirarsi. Il sistema ha retto per decenni, ha creato un solido mercato finanziario interno e ha garantito tutele vere, non ideologiche.

In Europa, invece, si è continuato a fingere che il problema non esistesse. I governi hanno preferito la propaganda alla verità, promettendo tutto a tutti e scaricando i costi sulle generazioni future. Oggi quella menzogna presenta il conto.

In Italia, si discute ogni anno di “quota 100”, “quota 103”, “pensioni anticipate”, “flessibilità in uscita”: palliativi per un impianto marcio. Ma non basta ritoccare l’orologio: serve cambiare il meccanismo.

La libertà previdenziale non è un’utopia. È una necessità. Consentire a ciascun cittadino di scegliere a chi affidare il proprio risparmio, di pianificare in autonomia il proprio futuro e di non dipendere dalle bizze della politica è l’unico modo per garantire davvero una pensione equa. Non si tratta di abbandonare i più deboli, ma di costruire un sistema trasparente, sostenibile, basato sulla meritocrazia e sulla proprietà privata dei contributi.

Come ha scritto Alexis de Tocqueville già nel 1835: “Lo stato sociale è la causa prima della maggior parte delle leggi, dei costumi e idee che regolano la condotta delle nazioni”, che esprime in definitiva la tendenza delle democrazie moderne a concentrare il potere, che potrebbe portare a una forma di “dispotismo dolce”, in cui lo Stato, pur non essendo apertamente tirannico, esercita un controllo pervasivo sulla vita dei cittadini. Il medesimo pensatore francese ha quindi osservato che, in tali condizioni, anche i diritti individuali apparentemente insignificanti possono essere sacrificati senza conseguenze apparenti, ma con gravi implicazioni per la libertà.

Oggi, mentre il Paese scandinavo si rassegna a spingere l’età pensionabile oltre ogni record, il Vecchio continente dovrebbe interrogarsi su una verità scomoda: forse il problema non è l’invecchiamento della popolazione, ma l’eterno infantilismo dello Stato. Un potere che non vuole rinunciare al controllo sulla vita dei cittadini nemmeno quando questi smettono di produrre.

La vera riforma? Restituire alla persona ciò che le appartiene: il frutto del proprio lavoro e la libertà di decidere quando smettere di lavorare. Tutto ciò sempre ricordando le parole di José Piñera alla Conferenza sul sistema pensionistico cileno, tenuta a Madrid nel 1998: “Chiunque pretenda di garantirvi la pensione, vi ha già derubato due volte: la prima dei vostri soldi, la seconda del vostro futuro”.


di Sandro Scoppa