Vecchie case, nuove pretese: il lusso secondo il fisco

venerdì 20 giugno 2025


Una sentenza blocca l’ennesimo abuso catastale: per l’Agenzia, un normale appartamento anni Sessanta doveva essere riclassificato come “signorile”

Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi: la giustizia – ha scritto Ulpiano – è la ferma volontà di attribuire a ciascuno il suo. Ed è stato proprio questo principio a guidare la recente sentenza n. 389/2025 della Corte di Giustizia Tributaria di Torino, che ha accolto il ricorso dei comproprietari di un appartamento nel capoluogo piemontese, ingiustamente riclassificato in categoria A/1, con aumento della rendita catastale e, con essa, del prelievo fiscale.

Si tratta di un’immobile, costruito nel 1969, ubicato in una palazzina di sette appartamenti, con impianti datati, materiali originali, servizi limitati e nessuna dotazione particolare. I proprietari avevano chiesto, tramite procedura Docfa e perizia tecnica, che fosse mantenuta la classificazione A/2. L’Agenzia ha invece disposto un diverso classamento, fondato su dichiarazioni generiche e non motivate.

I giudici tributari hanno però smontato punto per punto l’operato dell’amministrazione, affermando che il classamento deve rispecchiare le condizioni reali dell’immobile. L’assenza di rifiniture di pregio, impianti moderni o standard superiori impediva come impedisce di considerare l’alloggio “signorile”. E se l’erario modifica la rendita senza spiegare come e perché, viola non solo l’equilibrio fiscale ma anche i diritti del cittadino.

È una pronuncia importante che, tuttavia, si ricollega a un principio che affonda le sue radici nel tempo.

Infatti, già nel XI secolo, in Inghilterra, Guglielmo il Conquistatore aveva ordinato “Domesday Book”, un censimento dettagliato delle proprietà fondiarie, con dati su case, terreni e risorse. Il fine era chiaro: evitare che le imposte venissero calcolate sulla base di apprezzamenti soggettivi o favoritismi feudali. Ogni villaggio era censito per intero, e la registrazione diveniva “definitiva”, da cui il nome che evocava il giorno del giudizio. In pratica, un sistema pensato per mettere il potere fiscale sotto controllo.

Un altro precedente significativo risale alla metà del Settecento, quando, per iniziativa di Carlo di Borbone, era stato introdotto nel Regno di Napoli il catasto onciario. Con lo stesso veniva abbandonato l’antico sistema di tassazione basato sui “fuochi” ‒ cioè sui nuclei familiari ‒ e adottato un metodo fondato sulla descrizione analitica dei beni e dei redditi, sia urbani che rurali. Ogni proprietà veniva così rilevata indicando materiali, superfici, destinazione d’uso e valore. Le Istruzioni emanate nel 1741 prevedevano un’imposta proporzionale al reddito, calcolata su basi oggettive e verificabili. L’intento era chiaro: superare i privilegi fiscali legati ai ceti e introdurre un principio di maggiore equità tra i contribuenti.

Nell’Ottocento, poi, l’amministrazione austriaca nel Lombardo-Veneto aveva introdotto il catasto geometrico particellare, ispirato al modello teresiano e basato su rilievi topografici accurati e tavole censuarie dettagliate. Ogni fabbricato veniva rilevato con precisione, rappresentato su mappe in scala, descritto nei materiali, nella consistenza e nella destinazione d’uso. L’obiettivo era chiaro: sostituire la discrezionalità fiscale con un sistema tecnico, verificabile e uniforme, capace di garantire corrispondenza tra realtà fisica e imposizione tributaria.

Per quanto riguarda il caso torinese, nulla di tutto ciò è avvenuto. L’Agenzia ha disatteso le evidenze tecniche senza motivare, ha aumentato i vani senza giustificazione, ha ignorato i criteri previsti. La citata Corte ha invece ristabilito un principio chiaro: ogni prelievo dev’essere fondato su una valutazione oggettiva, documentata, comprensibile.

È ciò apre una riflessione che va oltre il singolo caso. La sentenza non si limita a correggere un abuso catastale, ma richiama l’attenzione su un nodo essenziale del rapporto tra potere pubblico e contribuente. Quando il fisco si fonda su presunzioni, il cittadino diventa oggetto e non soggetto. E quando la proprietà viene trattata come una colpa da punire, anziché come un diritto da riconoscere, il sistema entra in crisi.

Non si può parlare di giustizia e, soprattutto, di giustizia fiscale se ogni bene posseduto diventa un’occasione di esazione. Una casa modesta non può essere spacciata per lusso solo per generare entrate. Le regole, per essere tali, devono valere prima di tutto per chi le applica. E quando il potere pubblico finge di motivare, ma in realtà impone, viene meno la distinzione tra legge e comando.

Un sistema ordinato non si fonda sull’uguaglianza dei risultati, ma sull’uguaglianza davanti alle regole, dinanzi allo Stato: per intenderci, la base dello Stato di diritto. Dove quest’ultimo non riconosce i limiti del proprio potere, ogni diritto si trasforma in concessione. Ma una proprietà soggetta alla discrezionalità amministrativa è già, in nuce, una proprietà negata. Nessun individuo può considerarsi veramente libero se ciò che possiede è sottoposto a revisione continua da parte di un’autorità che non è tenuta a spiegarsi.

Il rispetto della realtà concreta – delle mura, degli infissi, degli impianti, della vetustà di un edificio – diventa allora un criterio di civiltà. E il controllo giudiziario su simili atti non è una minaccia all’efficienza pubblica, ma una condizione della sua legittimità. Ogni volta che si corregge un abuso catastale, non si protegge un interesse particolare: si ristabilisce un principio generale.

Il che consente di affermare che la giustizia tributaria, quando funziona, non è solo tecnica: è garanzia. Protegge dall’idea che il cittadino sia una risorsa da spremere e non un soggetto da rispettare. E restituisce equilibrio a un rapporto – quello tra Stato e proprietà – che troppe volte, in nome di esigenze di bilancio, viene piegato oltre il limite della decenza.

Un pensiero davvero fondato sulla responsabilità individuale riconosce che la tassazione, per essere legittima, deve arrestarsi dove inizia l’arbitrio. L’apparato pubblico non è incaricato di raddrizzare la realtà, ma di prenderne atto. Se ogni casa può diventare una “signorile” a discrezione dell’ufficio, nessun bene è più tutelato, nessun cittadino può dirsi al sicuro. Il fisco non può diventare giudice estetico dell’abitazione né trasformare il catasto in leva per colpire chi possiede.

Ecco perché questa sentenza non riguarda solo un appartamento classificato male, ma una visione del rapporto tra chi impone e chi paga. È un richiamo al senso del limite, alla logica della proporzione, al rispetto della realtà. Anche nell’imposta, la misura è tutto. E senza misura, non c’è giustizia.


di Sandro Scoppa