martedì 13 maggio 2025
Nel cuore del dibattito economico, ci si chiede ancora una volta se i dazi possano davvero essere considerati come uno strumento importante per un’efficace politica commerciale. Donald Trump è noto per presentarli e usarli come metodo principe per la difesa dell’industria nazionale. Tuttavia, esse nascondono un’impostazione fortemente interventista, in aperto contrasto con i principi del libero mercato. Lo scorso 9 aprile, Trump aveva sospeso per 90 giorni i dazi per la maggior parte dei partner commerciali, mantenendo però un minimo generale del 10 per cento e, verso la Cina, del 125 per cento.
Inoltre, Usa e Cina hanno raggiunto un accordo che dovrebbe ridurre significativamente i dazi di importazione che si erano imposti a vicenda, segnando un’importante de-escalation della loro guerra commerciale.
Mentre la retorica del protezionismo si fa oggi sempre più accesa, è urgente interrogarsi sui reali effetti di queste misure ‒ ciò a prescindere dalle opinioni ideologiche e personali sul generale fenomeno Trump. Chi paga (o pagherà) davvero il prezzo di questi dazi? E quali conseguenze potrebbero avere per l’economia americana e l’equilibrio globale? Quali sfide esse comporteranno, in particolare, per l’Unione Europea?
I dazi di Trump riguardano principalmente le importazioni negli Stati Uniti. La logica dichiarata è semplice: rendere più costosi i beni stranieri per favorire quelli nazionali, proteggendo così l’industria made in Usa. I dazi assumono un valore di forte pragmatismo e divengono anche un’arma per porre fine all’epoca di globalizzazione “a trazione cinese” che ha dominato il commercio mondiale negli ultimi trent’anni.
Questo tipo di globalizzazione ha riequilibrato la geopolitica e l’economia a favore di stati un tempo marginali, come Cina e India. Essi hanno conosciuto una crescita travolgente, riducendo la povertà e trasformandosi in attori di primo piano nello scenario internazionale. La Cina, in particolare, ha saputo sfruttare il vantaggio della manodopera a basso costo, unito a un controllo centralizzato della produzione e a una politica industriale aggressiva, spesso condotta a scapito delle regole della concorrenza.
Nel frattempo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno assistito a una progressiva deindustrializzazione e alla delocalizzazione massiccia delle filiere produttive. Il ceto medio ne è uscito fortemente indebolito, mentre il tessuto produttivo locale si è assottigliato. Trump, cogliendo il disagio dell’Occidente colpito da questo processo, ha individuato nella Cina e, in secondo luogo, nella Germania (intesa come il vero motore dell’Ue) i principali responsabili di questo squilibrio.
L’Unione Europea, infatti, in questi ultimi anni ha risposto con politiche che hanno cercato di replicare in scala ridotta il modello asiatico – salari bassi, moneta svalutata, export orientato. Abbiamo visto l’emulazione delle politiche cinesi anche in ambiti totalmente diversi, come quello sanitario, durante la pandemia da covid-19. Così facendo, l’Ue è divenuta oggetto di critiche e ripensamenti graduali da parte di Washington Dc. Non potevamo aspettarci diversamente, a ben pensarci.
Secondo Trump, l’Ue ha cercato di fare verso gli Usa ciò che, in gergo tecnico, viene chiamato dumping, cioè il tentativo di vendere prodotti a un prezzo molto più basso rispetto al prezzo normale di mercato o addirittura inferiore ai costi di produzione, al fine di conquistare il mercato, eliminare la concorrenza locale e guadagnare una posizione dominante.
Ora, nonostante le buone intenzioni di Trump e persino il probabile felice esito che i dazi avranno a breve termine, ci sono tre effetti a medio e lungo termine che tale politica dei dazi implica e che Donald Trump sembra non considerare affatto. Uno di questi effetti, l’ultimo che analizzeremo brevemente, riguarda più direttamente noi europei.
Il primo, a medio termine (forse più breve di quanto si possa pensare), ha a che fare con il fatto che il protezionismo, pur mascherato da patriottismo economico, finirà per danneggiare anzitutto i consumatori e le piccole imprese americane, che spesso non hanno margini per cambiare velocemente il modo con cui ottenere materia prima e per produrre. In un’economia dove tutto è collegato, l’aumento dei prezzi e le risposte degli altri Paesi danneggeranno soprattutto le zone del Midwest, incentrate su agricoltura, allevamento e manifattura leggera, proprio quelle dove Trump ha più sostenitori. Insomma, ci saranno effetti negativi a cascata, dalla produzione alla distribuzione, fino ad arrivare alla perdita di consenso elettorale.
Il secondo effetto collaterale, quello più a lungo termine, è l’impatto strutturale dei dazi sull’economia americana in generale. Un impatto profondo e, potenzialmente, duraturo. L’isolamento commerciale disincentiverà l’innovazione e ostacolerà la modernizzazione delle imprese. Quando viene meno la competizione internazionale, viene meno anche uno degli stimoli più importanti per migliorare la qualità e l’efficacia dei prodotti. La conseguenza sarà una crescita americana molto più lenta e una ridotta resilienza economica.
Il terzo effetto collaterale delle politiche protezionistiche riguarda, ovviamente e com’è evidente in queste settimane, la sfera diplomatica. L’imposizione di dazi ai prodotti europei ha creato un clima di crescente diffidenza tra Washington Dc e Bruxelles. Invece di rafforzare la cooperazione occidentale in un contesto geopolitico instabile, Trump rischia di ottenere il risultato opposto: un’Europa tentata da nuove alleanze, magari con la Cina, ad oggi l’unico vero competitore globale degli Usa. Il protezionismo, lungi dal contenere l’imperialismo cinese, potrebbe così favorirlo. Come se non bastasse, la crisi potrebbe alimentare l’emergenza di nuove forme di socialismo in Europa, travestite da nazionalismo, e tali da rafforzare il già pesante interventismo statale e da indebolire la libera circolazione di beni e capitali.
I politici europei devono ponderare molto bene le scelte da intraprendere, senza preconcetti ideologici. La Cina, infatti, è un partner molto pericoloso, anzitutto perché la sua economia è innaturale, cioè non spontanea, ma artificiosa, arbitraria, manipolata a tavolino. In un’economia libera, è possibile studiare e spiegare le relazioni causali logiche (ma non è mai possibile prevedere numeri e tempistiche precise). In un’economia di Stato, invece, queste relazioni sono più difficili da osservare perché i risultati vengono continuamente alterati da interventi arbitrari.
Abbiamo visto gli effetti disastrosi e imprevedibili del partenariato con la Cina nel settore automobilistico: il surplus dell’industria automobilistica tedesca, usato per fare dumping europeo verso gli Usa, si è tramutato in un boomerang. La Cina, che era un mercato chiave per le esportazioni automobilistiche tedesche, ha visto una diminuzione della domanda di auto straniere, favorendo i produttori locali, grazie anche a una più rapida (facilitata perché, appunto, innaturale) transizione verso l’elettrico. E a poco o nulla è valso il protezionismo improvvisato dell’Ue verso la Cina.
di Gaetano Masciullo