giovedì 10 aprile 2025
Tanto tuonò che piovvero i dazi imposti di Donald Trump su alcune nazioni comprese quelle del blocco occidentale. Ma questa operazione è solo la punta dell’iceberg che si cela sotto: ovvero anni di deleteria propaganda antiglobalista. Sebbene sia legittimo che il presidente degli Stati Uniti imponga tariffe aggiuntive alle merci in ingresso nel suo Paese. D’altronde, lo aveva promesso in campagna elettorale e lo ha mantenuto una volta eletto, con il rischio di un disastro, probabilmente a lungo termine, all’economia nazionale e occidentale in quanto interconnesse. Oltre a quello molto peggiore della “russizzazione” dell’America, costretta all’autoreferenzialità e alla chiusura economica e culturale, che a Mosca ha causato un Pil inferiore a quello dell’Italia, 1,8 trilioni di dollari contro 2,1, nonostante le immense risorse di cui è dotata. Eppure la nascita del Wto nel 1995 ha favorito sviluppo e crescita globale, dando slancio alla globalizzazione. Tuttavia, presto è emersa una sensibilità antiglobalista che ne ha offuscato il fascino. Intellettuali di destra e sinistra hanno contestato i suoi pilastri – libero scambio, impresa privata, universalismo, mettendo in discussione persino le relazioni pacifiche tra Stati in pochi decenni. Una pubblicistica ostile e movimenti violenti hanno fatto della globalizzazione un nemico, invocando l’identità da destra e la lotta di classe da sinistra.
Eppure, questo sistema, basato sulla collaborazione volontaria, è nato per generare ricchezza e favorire la pace. E con il mondo più connesso si è inaugurato il “villaggio globale” preconizzato da Marshall McLuhan, grazie anche all’accelerazione tecnologica del XX secolo. Il povero Richard Cobden, alfiere della lega antiproibizionista e amico di Camillo Benso di Cavour, oggi si strapperebbe i capelli nel vedere che quello per cui si è battuto al suo tempo e realizzato con fatica un secolo e mezzo dopo è stato demolito dell’insipienza di una certa intellighenzia “bipartisan” che ha ignorato un pericolo evidente: attaccare la globalizzazione avrebbe spinto a rompere il sistema del commercio mondiale, come gli Usa con i imposte doganali, o a invadere un altro Paese, come la Russia in Ucraina nel 2022. Ci sono voluti secoli di sangue e commerci, dalle colonie minoiche in Sicilia fino al Wto, per costruire l’universalità economica. La storia ci ha insegnato che le risorse si ottengono in due modi: con la guerra, rischiosa e incerta, o con lo scambio pacifico. Quantunque il conflitto tra gli uomini o gli Stati sia alle volte inevitabile, c’è almeno la possibilità di spostare tutti gli altri sul piano dello scambio, del commercio e della competizione tecnologica e finanziaria, allontanandolo dai campi di battaglia. Abbandonare la globalizzazione significa pertanto rinunciare alla pace (anche parziale) e al benessere economico che ne deriva.
I campioni di tale bellicosità dissimulata sono gli antiglobalisti di tutte le latitudini politiche. Le loro argomentazioni, pur controverse, hanno guadagnato terreno negli ultimi decenni, alimentando movimenti “qualunquisti” e politiche come la Brexit o le odierne tariffe di Donald Trump. Le loro argomentazioni si possono raggruppare, semplificando, in due schemi. Le critiche da sinistra si concentrano su sfruttamento dei lavoratori, problematiche ambientaliste, disuguaglianze e imperialismo economico delle potenze occidentali. Da destra, si mette in rilievo l’affievolimento dell’identità nazionale (come se essa fosse una materia solida e fissa nel tempo e nello spazio e non un continuo divenire), la progressiva erosione del potere dei singoli Stati in favore delle multinazionali, crisi demografiche, immigrazione clandestina tutto questo misto a una generalizzata maldicenza verso le istituzioni sovranazionali. La globalizzazione non è solo economia, ma un processo identitario universale. Le nazioni come particelle in stati multipli, isolati o interconnessi, “collassano” in una realtà condivisa tramite il commercio e un’azione locale ha effetti globali. Abbandonare questo sistema non significa solo perdere benessere, ma rinunciare a quella identità universale che emerge dalla collaborazione. In ogni caso, l’accusa che viene puntualmente rivolta alla globalizzazione è quella secondo la quale diffonde un modello culturale dominante (spesso identificato con quello americano-occidentale e forse è questo il vero motivo di tanta ostilità), attraverso media, marchi e consumi di massa. Certamente in questi anni sono emerse delle criticità di cui bisognerà tenere conto in futuro, per esempio si sono globalizzati i commerci e non i diritti e questo ha favorito le grandi imprese che hanno delocalizzato molte delle loro fabbriche, con perdita di posti di lavoro locali, a favore di Paesi con salari bassi e scarse tutele, per sfruttare una manodopera a buon mercato.
La corsa al ribasso sui costi del lavoro ha poi portato a condizioni disumane in fabbriche come quelle tessili in Bangladesh. Inoltre l’espansione del commercio globale e la delocalizzazione produttiva ha aumentato l’impatto sull’ambiente, con trasporti su larga scala (emissioni di Co2), deforestazione per l’agribusiness e sfruttamento intensivo delle risorse naturali nei Paesi in via di sviluppo. Detto questo però ci sono stati dei vantaggi innegabili che sono stati fattori chiave per il progresso economico, tecnologico, sociale e culturale a livello mondiale e permettendo ai Paesi di specializzarsi nella produzione di beni e servizi in cui sono più efficienti, ha portato a una crescita del Pil globale con un aumento della ricchezza complessiva. La competizione tra produttori globali e la delocalizzazione della produzione hanno ridotto i costi, rendendo beni di consumo (elettronica, abbigliamento, alimentari) più accessibili a un pubblico più ampio. Smartphone e computer, prodotti con componenti provenienti da vari Paesi (a esempio: chip da Taiwan, assemblaggio in Cina), sono oggi alla portata di molte famiglie, anche nei Paesi in via di sviluppo. I sostenitori della globalizzazione, come Richard Cobden nel XIX secolo o economisti moderni come Jagdish Bhagwati, hanno preconizzato queste positività come motore di progresso universale, sottolineando come, malgrado le criticità, i benefici avrebbero superato i costi. Jagdish Bhagwati scrive nel suo In difesa della globalizzazione (2004): “La globalizzazione non è un gioco a somma zero. Non è vero che i guadagni di alcuni siano necessariamente le perdite di altri. Al contrario, può essere, e spesso è, un gioco a somma positiva, in cui tutti possono trarre beneficio, se solo lo gestiamo con saggezza”.
Per superare il “dazismo” attuale, sia culturale che economico, è necessario aprirsi e aprire nuovi mercati, stabilire accordi commerciali e rivedere non solo le politiche interne all’Unione europea ma anche quelle con quei Paesi con cui si hanno pochi rapporti. Peraltro a breve quando sarà chiaro che la strada imboccata dagli Stati Uniti lascia poco spazio alla trattativa, vedrete, che da questa parte dell’Occidente si comincerà col discutere apertamente se conviene tenere in piedi ancora sanzioni ed embarghi a quegli stati che oggi sono considerati ostili o non abbastanza “liberali” per l’Unione europea e per gli Stati Uniti pre-Trump. Fortunatamente però la democrazia statunitense è più forte di chi la guida e così il senatore del Kentucky, Rand Paul, repubblicano e libertario, ha espresso una forte opposizione ai pedaggi imposti dal presidente Usa, definendoli una misura dannosa sia economicamente che politicamente sottolineando che “sono tasse” e che “non puniscono i Governi stranieri, ma le famiglie americane”. Inoltre, ha avvertito i repubblicani del rischio politico, richiamando precedenti storici così come “quando William McKinley impose i dazi nel 1890, perdemmo il 50 per cento dei seggi. Con Smoot-Hawley negli anni Trenta, perdemmo Camera e Senato per sessant’anni. Non sono solo dannosi economicamente, ma anche politicamente”. Al Senato ha poi aspramente criticato l’uso in questo caso della legislazione di emergenza da parte di Donald Trump perché apre ad un precedente che in futuro potrebbe essere richiamato a danno delle libertà, anche perché, dice Paul, “la Costituzione proibisce a una sola persona di aumentare le tasse. Questo è un problema bipartisan, non importa se il presidente sia repubblicano o democratico”.
Gli hanno fatto eco anche Ted Cruz, senatore repubblicano del Texas, che ha prefigurato una débâcle elettorale per il Gop se queste politiche porteranno alla recessione e in anche Elon Musk ha lanciato l’idea, molto condivisibile ed auspicabile, di un’area di libero scambio totale tra Europa e Usa: quell’aera geo-culturale che chiamiamo “Occidente” formato e forgiato negli stessi ideali di libertà. Certo sarebbe anche meglio una confederazione stabile tra le due sponde dell’oceano, come già Victor Hugo durante un discorso al Congresso internazionale per la pace tenutosi a Parigi nel 1849 aveva profetizzato: “Verrà un giorno in cui tutte le nazioni del nostro continente formeranno una fratellanza europea. Verrà un giorno in cui dovremo vedere gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa faccia a faccia, allungarsi tra di loro attraverso il mare”, ma forse è troppo prematuro, se non utopistico immaginarlo. Sognare in ogni caso non costa nulla. Non mancano in questo dibattito altre voci come quella di Giustino Amash, ex deputato, primo libertario al Congresso (2020), passato dal Gop al Libertarian Party, che ha detto le nuove tariffe sono “un abuso di potere esecutivo” e “una tassa sui consumatori americani”. Come anche l’ex governatore del New Mexico, candidato presidenziale libertario nel 2012 e 2016, Gary Johnson quando sostiene che “il protezionismo è un errore economico che punisce i consumatori e rallenta la crescita”.
Per superare questo “dazismo”, l’ideologia “chiusivista” e protezionista, serve uno scatto in avanti di grande respiro politico (che purtroppo non si vede all’orizzonte) e più che pensare a controbattere con altre tariffe a danno di tutti o pensare di negoziare con il cappello in mano con chi non ne vuole sentire, bisognerebbe aprirsi ai mercati emergenti, come l’Africa subsahariana per le rinnovabili o l’India per la tecnologia, e riallacciare i tanti fili spezzati o mai intrecciati con il resto del mondo, brutto, sporco e cattivo che sia. Inoltre, per bilanciare i tanti difetti della globalizzazione potrebbe essere utile un “Patto globale per il lavoro umano” nell’ambito del Wto e degli stati che vi aderiscono per tutelare le persone su alcune linee guida: limite di 48 ore lavorative settimanali, con almeno un giorno di riposo e standard di sicurezza europei sul lavoro; divieto di lavoro minorile con deroghe per apprendistati regolamentati e retribuiti; trasparenza per le multinazionali con report, annuali e pubblici, sulle condizioni di lavoro dei fornitori, certificati da enti indipendenti; incentivi (riduzione del 5 per cento sui dazi per i membri) e sanzioni (imposte extra del 10 per cento per i non conformi); formazione per le competenze digitali per lavoratori delocalizzati; facilitazioni e deregolamentazioni alle imprese che si adeguano agli accordi; passaporto universale del “lavoro” sia per gli uomini, che avrebbero una certificazione internazionale di competenze anche per garantire loro libertà di movimento per ricollocarsi, sia per le merci tramite un QR code su ogni prodotto esportato, tracciabile dai consumatori, che valida la conformità agli standard lungo la filiera.
Implementando poi sistemi di intelligenza artificiale, che possono verificare in tempo reale la conformità agli standard prefissati si potrebbero apportare cambiamenti più veloci, anche tariffari, per coloro che non li rispettano. Per non dire che l’Ia potrebbe essere usata per simulare scenari di crisi (calamità naturali, pandemie, guerre, crisi umanitarie) identificando problematiche particolari e suggerire alternative, ottimizzando costi e tempi per gli interventi di sostegno, ed anche per mitigare gli effetti legati alle interruzioni della catena di approvvigionamento. E l’Europa, sia per storia che per cultura, dovrebbe essere il capofila di questo cambiamento tenendo presente anche gli altri attori mondiali e visto che ci avviamo ad un mondo multipolare, nel segno della cooperazione e del dialogo per un futuro che non collassi in conflitti e divisioni.
di Antonino Sala