La lezione di Luis de Molina e l’illusione del controllo

venerdì 21 febbraio 2025


Quando il potere politico altera l’allocazione delle risorse, il mercato diventa ostaggio di tasse e burocrazia. Proprietari e inquilini non decidono più liberamente: lo Stato impone, dirige, e distorce. Ma il prezzo giusto lo stabilisce il mercato, non la legislazione.

Nei giorni scorsi, alcuni organi di informazione hanno riportato una tendenza in crescita: sempre più proprietari stanno abbandonando gli affitti brevi per tornare alla locazione tradizionale. Secondo la narrazione dominante, si tratterebbe di una naturale evoluzione del mercato. In realtà, un’analisi più approfondita e libera da pregiudizi ideologici rivela uno scenario ben diverso. Non siamo di fronte a una scelta spontanea, ma a una reazione forzata alla pressione fiscale e ai vincoli normativi imposti dallo Stato. Anziché permettere che domanda e offerta si incontrino liberamente, il potere pubblico ha deciso di manipolare le dinamiche del mercato, penalizzando chi opta per gli affitti brevi con una tassazione più gravosa e regolamentazioni sempre più restrittive.

Luis de Molina, un teologo, giurista e filosofo, appartenente alla Compagnia di Gesù, tra i grandi pensatori della Scuola di Salamanca, fiorita nel XVI e XVII secolo presso la locale Università spagnola, nel suo De Iustitia et Iure aveva già smascherato la pretesa dello Stato di stabilire cosa sia “giusto” in economia, scrivendo a chiare lettere: “Iustum pretium non definitur per singularem aestimationem unius personae, sed per communem aestimationem multorum, secundum rationes loci et temporis” – (“Il giusto prezzo non è determinato dalla valutazione di una singola persona, ma dalla stima comune di molte persone, secondo le condizioni di luogo e tempo”). Lo stesso e i suoi contemporanei avevano in particolare compreso che il valore di un bene non è un concetto statico, ma il risultato di scambi liberi tra individui, che determinano spontaneamente prezzi e condizioni. Quando l’apparato statale interviene per favorire un tipo di contratto rispetto a un altro, non sta garantendo giustizia, ma sta distorcendo il mercato, alterando l’allocazione delle risorse.

Il fenomeno che osserviamo oggi nelle città italiane – da Milano a Roma fino a Napoli – non è altro che il risultato di una strategia politica che ostacola la libertà contrattuale e indirizza artificialmente le scelte degli operatori. La tassazione sugli affitti brevi e la crescente regolamentazione hanno reso più conveniente la locazione tradizionale, non perché sia economicamente superiore, ma perché il legislatore ha deciso di penalizzare l’alternativa più flessibile e redditizia.

Il risultato? Minore offerta di alloggi per il turismo, contratti meno dinamici, un mercato forzato a seguire la via imposta dalla politica anziché quella spontaneamente determinata dalle preferenze individuali. Esattamente ciò che proprio Molina e gli altri pensatori di Salamanca avevano previsto: ogni volta che il potere centrale impone regole arbitrarie, il mercato smette di essere il prodotto della libera interazione tra individui e diventa un campo di battaglia in cui i cittadini devono piegarsi alla volontà del sovrano.

Questa del resto non è neppure una novità nella storia economica. I controlli sui prezzi, le tassazioni discriminatorie, le restrizioni sui contratti sono sempre stati strumenti per piegare il mercato agli interessi dello Stato, con conseguenze devastanti. Dalla Roma imperiale alla crisi degli alloggi nei regimi socialisti, le volte che il potere politico si è intromesso nella determinazione dei prezzi e delle condizioni di scambio, il risultato è stato una riduzione dell’offerta, un aumento dell’inefficienza e una minore libertà economica.

L’inganno della regolazione statale sugli affitti brevi è lo stesso di sempre: si presenta come un tentativo di riequilibrare il mercato, ma in realtà lo deforma e lo rende meno funzionale. Se gli affitti sono alti, la soluzione non è ostacolare una formula contrattuale rispetto a un’altra, ma liberalizzare. Lasciare ai proprietari la libertà di scegliere senza imposizioni fiscali o burocratiche. Eliminare i vincoli che rendono l’affitto un incubo per chi possiede un immobile. Ridurre le imposte sugli immobili, così da incentivare gli investimenti e aumentare l’offerta.

Il potere pubblico, invece, segue una logica opposta: anziché favorire la libertà economica, colpisce la proprietà privata con un carico fiscale sproporzionato e impone normative sempre più soffocanti, rendendo arduo mettere a reddito un immobile senza affrontare costi elevati e vincoli opprimenti. La dinamica è sempre la stessa: i burocrati, convinti di poter plasmare il mercato secondo la loro visione, ne stravolgono le dinamiche naturali con imposizioni e regolamentazioni arbitrarie. Eppure, già nel 1600, lo studioso gesuita tardo scolastico metteva in guardia contro siffatti interventi, sottolineando che la giustizia economica non può essere imposta dall’alto: “Si princeps sine rationabili causa monopolii privilegium concedat, peccare contra iustitiam tam ipsum, quam qui monopolium obtinet (“Se il sovrano concede un privilegio di monopolio senza una giusta causa, egli stesso e chi ne usufruisce commettono un’ingiustizia”).

È esattamente ciò che accade oggi: lo Stato, attraverso la tassazione e la regolamentazione, orienta artificialmente il mercato, privilegiando un modello contrattuale a scapito di un altro, distorcendo l’allocazione naturale delle risorse. Ma un mercato libero non funziona così. La vera giustizia economica nasce dalla possibilità per ogni individuo di amministrare i propri beni senza interferenze, senza dover subire i diktat di chi vuole controllare e dirigere dall’alto.

Se davvero vogliamo affrontare il problema degli affitti e garantire un’offerta abitativa ampia e accessibile, non servono nuove regolamentazioni, ma meno vincoli, meno tasse e più libertà di mercato.

Come, in definitiva, ha pure insegnato Luis de Molina: “In iustitia commutativa, aequalitas in permutationibus est servanda, nec princeps potest hanc per suam voluntatem mutare sine iniuria (“Nella giustizia commutativa, l’uguaglianza negli scambi deve essere rispettata, e il sovrano non può alterarla a suo piacimento senza commettere un’ingiustizia”), anche avvertendo che: “Nihil enim magis adversatur libertati hominis quam immoderata potestas principum” – (“Nulla è più avverso alla libertà dell’uomo di un potere eccessivo dei governanti”).


di Sandro Scoppa