lunedì 16 dicembre 2024
La recente definizione dell’accordo commerciale tra Ue e Area Mercosur, tanto rapida nella conclusione quanto era stata lenta e complessa nel negoziato, sta suscitando diverse reazioni sulla stampa e nel mondo agricolo. Come sovente accade in questi casi le considerazioni emozionali rischiano di prevalere sulle valutazioni oggettive, fondate su elementi documentali. Proprio l’insufficienza degli elementi documentali di cui si dispone, suggerisce che una valutazione di merito sull’intesa commerciale e sugli effetti che avrà sul nostro settore agro-alimentare sia prematura. Nel quadro di un accordo molto articolato e complesso, ci saranno specifici comparti avvantaggiati ed altri forse penalizzati. Tuttavia, se sono comprensibili e teoricamente non infondate (ma tecnicamente poco praticabili) le richieste di “reciprocità” nelle norme tecniche di produzione (in specie per quanto riguarda i prodotti fitosanitari, su cui la legislazione europea è estremamente rigorosa – e talvolta paralizzante – mentre quella dei partner commerciali sarebbe molto più soft), meno giustificato appare l’allarmismo di chi più emotivamente parla di “svendita” del nostro settore primario.
Probabilmente è più utile fare qualche riflessione e porsi qualche interrogativo di metodo. Premesso che gli scambi commerciali sono da sempre il fondamento della crescita economica e della stessa civile convivenza, che la libertà negli scambi rappresenta un potentissimo incentivo alla competitività come fattore di progresso e di innovazione, c’è tuttavia da chiedersi se e come l’accordo appena concluso si possa inquadrare in una coerente politica agro-alimentare dell’Ue, ammesso che essa esista. Sarebbe grave se, in nome di quel “malinteso ambientalismo” tanto ben stigmatizzato da Dario Casati, l’accordo sottendesse la scelta di “delegare” a Paesi terzi alcune produzioni che in Europa non si vogliono più fare, “esternalizzandone” sic et simpliciter gli eventuali impatti. D’altro canto, se qualcuno sceglie politiche di “decrescita” nell’ambito delle produzioni agroalimentari, deve poi trovare fonti alternative di approvvigionamento.
Oltre quindici anni fa – per fare un esempio – proprio Ue e governo italiano decisero la sostanziale dismissione del nostro settore bieticolo-saccarifero, con conseguenze negative sia a livello socio-economico che tecnico-agronomico (la bietola è una pianta ideale per razionali avvicendamenti colturali). Inutile quindi lamentare oggi la concessione di agevolazioni all’import di zucchero dal Brasile, come ha fatto qualche osservatore. Nelle nostre campagne il fuoco del malcontento, che aveva agitato lo scorso inverno, sembra ancora covare sotto la cenere, e qualcuno pensa che l’accordo Ue-Mercosur possa contribuire a riaccendere la “protesta dei trattori”. Ma forse i nostri agricoltori più che delle aperture dell’Ue al libero scambio dovrebbero preoccuparsi del rischio che le politiche agricole uscite da Bruxelles negli ultimi anni, improntate ad un rigido dirigismo, alla limitazione della libertà d’impresa, ma anche di ricerca scientifica e innovazione, ed in definitiva alla “decrescita”, non siano adeguatamente e rapidamente riformate.
(*) Presidente della Società agraria di Lombardia
di Flavio Barozzi (*)