C’è un nuovo tipo di lavoro che gli italiani non vogliono più fare: l’imprenditore

martedì 3 dicembre 2024


Per riportare un tema che oggi è “radioattivo” a una dimensione più trattabile

Sarebbe buona cosa che il dibattito sull’immigrazione partisse da dati di realtà, anziché da pregiudiziali ideologiche, di un tipo o di un altro. Si consideri il recente rapporto della Cgia di Mestre, peraltro ampiamente ripreso dai media, secondo cui negli ultimi dieci anni le imprese attive guidate da titolari nati all’estero sono aumentate del 29,5 per cento, contro una flessione del 4,7 per cento di quelle guidate da italiani. Questo trend è ancora più pronunciato nelle aree più dinamiche del Paese: a Milano, la crescita delle imprese fondate da stranieri è addirittura del 49,4 per cento rispetto a dieci anni fa. Questi dati riprendono e ampliano quelli contenuti nel monitoraggio periodico di Unioncamere, secondo cui – al 31 dicembre 2023 – risultavano iscritte al Registro delle imprese 659mila imprese guidate da stranieri, di cui 522mila extraeuropei.

I settori maggiormente interessati sono le costruzioni e l’agricoltura, mentre il territorio dove il fenomeno è più visibile è il Nordovest e, in particolare, la Lombardia (sebbene la provincia con una maggiore intensità di presenza straniera sia Prato, per ragioni del tutto peculiari legate alle dinamiche del settore tessile). Né la questione riguarda solo l’imprenditoria: anche nel mondo del lavoro si rilevano dinamiche analoghe. Nel 2023, secondo il Ministero del Lavoro, era di origine straniera il 10,1 per cento degli occupati (di cui il 7 per cento extraeuropei), con punte particolarmente elevate nel settore dei servizi (30,4 per cento), agricoltura (18 per cento), alberghi e ristoranti (17,4 per cento) e costruzioni (16,1 per cento).

Gli immigrati sono ormai un tassello fondamentale del nostro mondo del lavoro: senza di essi l’Italia, letteralmente, faticherebbe ad andare avanti, specialmente in settori come le costruzioni, l’agricoltura e alcune funzioni all’interno del manifatturiero. Poiché gli immigrati sono mediamente più giovani, essi danno anche un contributo fiscale netto positivo al bilancio pubblico, in quanto, pur pagando relativamente poche tasse a causa dei bassi redditi, utilizzano ancor meno la spesa pubblica (fanno eccezione solo alcune voci quali il social housing). Se la discussione prendesse le mosse da questi dati, forse riusciremmo a riportare un tema che oggi è “radioattivo” a una dimensione più trattabile. E riusciremmo anche a collocare il contrasto all’immigrazione irregolare e al traffico di esseri umani in una prospettiva più razionale, che non può prescindere da un deciso intervento sui canali regolari di ingresso nel Paese. Gli ultimi decreti flussi hanno in parte colto questa esigenza, ma sono ancora ben lontani dal soddisfare il fabbisogno che emerge dal mondo del lavoro. Sull’immigrazione, il Governo ha un’occasione importante per combattere l’illegalità favorendo l’integrazione e promuovendo la crescita del Paese.


di Istituto Bruno Leoni