venerdì 27 settembre 2024
Il Decreto-legge n. 19/2024 introduce la patente a crediti per la sicurezza nei cantieri, ma tra le imprese crescono i dubbi sull’efficacia di questa nuova normativa
Tra pochi giorni, ossia dal primo ottobre 2024, imprese e lavoratori autonomi che operano nei cantieri dovranno affrontare l’introduzione di un nuovo obbligo: la cosiddetta “patente a crediti”. Questa è prevista dal Decreto-legge n. 19/2024 e implementa un sistema che prevede l’assegnazione di un punteggio, che aumenta o diminuisce a seconda del rispetto di regole, normative e buone pratiche aziendali.
Ebbene, nonostante a prima vista possa sembrare una misura innovativa e virtuosa, volta a premiare chi rispetta le regole e penalizzare chi le infrange, essa nasconde in realtà insidie che rischiano di trasformarla in uno strumento inefficace, o addirittura dannoso per le imprese obbligate e, in definitiva, per il tessuto economico e produttivo del nostro Paese.
Innanzi tutto, e la cosa desta non poca preoccupazione, per il brevissimo lasso di tempo che le medesime imprese hanno a disposizione per adeguarsi al nuovo ordine. Lo Stato, more solito, ha mostrato di non tener conto delle varie situazioni e delle realtà produttive in Italia, che richiederebbero un margine di tempo ben più ampio per poter implementare una novità tanto impattante. L’obbligo di adeguamento, in un tempo tanto ristretto, rischia così di cogliere molte aziende impreparate, con conseguenze che potrebbero tradursi in pesanti sanzioni o nella sospensione delle attività.
A parte ciò, vi è poi da considerare che, con l’introduzione di un sistema basato su crediti, simile a quello in vigore per le patenti di guida, vengono non solo moltiplicati gli obblighi burocratici, ma reso ancora più complesso e costoso operare in un settore già fortemente regolamentato.
Le imprese, già costrette a navigare in un mare di normative, si troverebbero infatti di fronte a un ulteriore apparato di controllo, costruito su punteggi, che richiederebbe risorse amministrative ingenti. La sua creazione e la gestione, con continui monitoraggi e revisioni, comporterebbe un inevitabile aumento dei costi sia per le medesime aziende sia per l’amministrazione statale. Senza contare che, le maggiori conseguenze negative di tale congegno, che richiede corsi di formazione, aggiornamenti continui, nonché la creazione di nuove strutture interne per gestire la complessa macchina burocratica che si andrà a creare, le subirebbero le piccole e medie imprese, colonna portante dell’economia italiana. Queste, non avendo la struttura necessaria per sostenere un’organizzazione così complessa, rischierebbero di essere schiacciate da sanzioni e penalizzazioni, perdendo competitività rispetto alle grandi aziende, che invece dispongono di risorse maggiori per conformarsi alle nuove regole.
Altra criticità si desume dalla previsione di una valutazione basata sui crediti, che potrebbe risultare arbitraria, lasciando ampio margine di discrezionalità a chi la gestisce. E ciò rischia di incoraggiare favoritismi e pratiche non trasparenti, con operatori che potrebbero vedersi assegnare punteggi non per il merito effettivo, ma in base a interpretazioni soggettive o pressioni esterne.
L’instabilità di un simile meccanismo sarebbe vieppiù accentuata dal rischio di continue modifiche delle regole del gioco: cosa questa non affatto infrequente nella normativa italiana, creando ulteriore incertezza per gli obbligati, già costretti a confrontarsi con una legislazione mutevole e imprevedibile. Una regolamentazione eccessiva o instabile è uno dei principali ostacoli allo sviluppo di un mercato libero e dinamico, dove l’innovazione e l’efficienza dovrebbero essere i veri motori della crescita economica.
Aggiungasi a quanto precede che l’imposizione di un metodo di penalizzazione cumulativa potrebbe persino spingere le imprese ad adottare comportamenti conservativi e rinunciatari. Se anche piccole infrazioni rischiano di comportare la sottrazione di crediti e quindi di vantaggi competitivi, le stesse potrebbero evitare di correre rischi necessari per l’innovazione, concentrandosi esclusivamente sul rispetto pedissequo delle norme.
In siffatto modo, verrebbe meno la spinta all’innovazione e alla sperimentazione, che rappresenta il cuore pulsante di un capitalismo di successo: un ambiente virtuoso deve incoraggiare le imprese a migliorarsi continuamente, non a conformarsi a regole rigide per paura di perdere punti in un sistema di crediti.
Né va poi trascurato il rischio di una distorsione della concorrenza. In un mercato concorrenziale, nuovi competitori dovrebbero avere la possibilità di emergere grazie alle loro idee e al loro spirito imprenditoriale. Al contrario, la patente a crediti potrebbe favorire le imprese già consolidate, che hanno le risorse per mantenere alti punteggi, e rendere molto difficile per le startup o le piccole realtà di poter competere efficacemente. La quale cosa danneggerebbe l’intero mercato, che registrerebbe la contrazione della varietà di offerta e della capacità di innovazione. In proposito non è inutile evidenziare che la virtuosità delle imprese non dovrebbe essere misurata attraverso meccanismi rigidi e burocratici, che rischiano di allontanarsi dalla realtà pratica del mercato.
Invero, le virtuose non sono solo quelle che rispettano le regole alla lettera, ma anche tutte le altre che innovano, creano valore e contribuiscono alla crescita economica e sociale. Il meccanismo ora apprestato potrebbe non essere in grado di cogliere tutte queste sfumature, limitandosi a premiare la conformità senza considerare altri aspetti cruciali per lo sviluppo di un’impresa.
Fermo quanto già detto, non è infine da sottovalutare che la patente a crediti può persino rappresentare un preoccupante precedente, e nulla toglie che venga addirittura esteso ad altre categorie. Quivi, travestito da misura a favore della sicurezza, espanderebbe ancora il controllo statale, finendo per comprimere ulteriormente la libertà economica e l’autonomia dei lavoratori.
“Ogni forma di controllo pubblico, anche quella ispirata dalle migliori intenzioni finisce per minacciare le libertà degli individui”, ha ammonito Bruno Leoni, mostrando così come anche le regolamentazioni apparentemente benefiche possano comportare pericolosi rischi.
In conclusione, nessuno mette in dubbio l’importanza della sicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, essa non deve diventare un pretesto per imporre regole sempre più stringenti che minano la libertà degli individui e delle imprese. Il compito dello Stato dovrebbe essere quello di creare le condizioni per uno sviluppo economico libero e sano, non quello di ergersi a controllore di ogni aspetto della vita lavorativa.
La sicurezza sul lavoro non si ottiene infatti con obblighi e patenti, ma con la responsabilizzazione degli attori coinvolti.
In un mercato libero e competitivo, del resto, le imprese stesse hanno tutto l’interesse a tutelare la salute e la sicurezza dei propri lavoratori, perché un ambiente sicuro è anche più produttivo e sostenibile nel lungo periodo. Al contrario, quando lo Stato impone regole rigide e pesanti, si rischia di ottenere l’effetto opposto: il lavoro irregolare finisce con l’aumentare, si adottano strategia elusive, i comportamenti vengono adeguati al mero rispetto formale delle prescrizioni, proprio perché diventa più difficile rispettare tutte le nuove norme.
Il futuro della sicurezza nei cantieri non può pertanto essere garantito da nuove patenti o crediti, ma dalla semplificazione normativa e dall’eliminazione dei fardelli burocratici insopportabili nonché da un contesto economico in cui le imprese siano libere di crescere e di responsabilizzarsi autonomamente: “Il grande vizio delle leggi ‒ ha scritto Herbert Spencer ‒ è che sopprimono l’auto-responsabilità, minando la forza di ogni individuo a decidere per sé”.
di Sandro Scoppa