mercoledì 25 settembre 2024
Il rapporto sulla competitività dell’Unione europea di Mario Draghi è stato accolto con entusiastico furore dalla stragrande maggioranza dell’informazione e della politica italiana, salvo qualche eccezione, con poca capacità critica rispetto a un programma, che se attuato, ci porterebbe verso un modello di economia e di società pianificata dall’alto, tutto il contrario rispetto allo spirito dei padri fondatori della comunità europea. L’ex presidente del Consiglio presuppone che per il buon andamento della società sia necessaria la direzione di un gruppo ristretto di esperti, di professionisti della crescita fondata sul debito pubblico, di economisti keynesiani, di politici illuminati, che decida quello che è meglio per il resto dell’umanità. Il suo rapporto non è solo un semplice report sulla concorrenza ma un programma politico su come trasformare l’intera Unione europea in uno Stato controllore e organizzatore della vita economica e sociale dei suoi 448,8 milioni di abitanti. Si potrebbe obiettare che le sue sono solo indicazioni generiche di cui prendere atto ma senza perderci molto tempo perché forse non saranno mai applicate, almeno nell’immediato.
La sua è solo una delle tante consulenze che le istituzioni europee chiedono. Però le idee sono catalizzatori di cambiamento, che se nel breve periodo non sembrano avere effetti, nel medio e lungo cominciano ad averlo mutando la realtà. Un esempio concreto? nello Sri Lanka proprio in questi giorni ha vinto le elezioni presidenziali il marxista Anura Kumara Dissanayake con il suo Partito nazionale del popolo, a 141 anni dalla morte di Karl Marx e a 176 anni dalla pubblicazione del Manifesto del Partito comunista. Ecco perché è utile il dibattito sul rapporto Draghi. Non bisogna dare per scontato che resti lettera morta, perché di fronte a una crisi di sistema che potrebbe aprirsi all’improvviso causata dalla chiusura dell’economia e dai disastri dello statalismo politico e del dirigismo economico, non è detto che non si invochi paradossalmente ancora più interventismo.
E se la cura aggraverà il malato la giustificazione sarà bella che pronta: “La ricetta non è stata applicata fino in fondo” e così nonostante la riuscita dell’operazione il paziente (l’Unione europea) morirà e noi con lei. La proposta Draghi intanto non sembra che abbia nulla di innovativo: è la riproposizione di quello che lo stesso ha detto quando era a capo della Bce il 26 luglio 2012: “The only way out of this present crisis is to have more Europe, not less Europe” (“L’unica via d’uscita da questa crisi attuale è avere più Europa, non meno Europa”). Precisiamo che la sua Europa è uno stato accentratore, retto da burocrati e la cosa più grave senza una Costituzione votata dai Parlamenti degli Stati nazionali e quindi senza tutte le limitazioni al potere centrale, a cominciare dal rigore nei bilanci, che essa assicura e su cui si fonda la nostra idea occidentale di democrazia liberale. Infatti, in quell’occasione aggiunse con tono sicuro: “But there is another message I want to tell you. Within our mandate, the Ecb is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough” (“Ho un messaggio chiaro da darvi: nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza”), rimanendo nella storia con la locuzione “Whatever it takes”.
Non sappiamo cosa sarebbe oggi l’Unione europea senza l’intervento della Bce guidata da Draghi ma conosciamo i suoi effetti sia economici che politici con la crescita della diffidenza e dell’ostilità nei popoli europei verso le istituzioni comunitarie, con nocumento per la grande impresa, a cui gli italiani a cominciare da Gaetano Martino hanno dato un notevole ed entusiastico contributo. Ci dice l’ex presidente del consiglio italiano in questo testo che “le politiche di coesione dovranno essere riorientate su settori quali l’istruzione, i trasporti, gli alloggi, la connettività digitale e la pianificazione, che possono aumentare l’attrattiva di una serie di città e regioni diverse”. La parola chiave è “pianificare”, con l’aggiunta del verbo “dovere” coniugato variamente.
Infatti prosegue “la mancanza di una pianificazione a livello europeo per la competitività dei trasporti ostacola la capacità dell’Unione di sfruttare le possibilità del trasporto multimodale per ridurre le emissioni di Co2”. Il settore automobilistico è un esempio centrale di mancata pianificazione da parte dell’Ue, che applica una politica climatica senza una politica industriale per ottenere un cambiamento radicale nella diffusione delle reti sarà necessario un nuovo approccio alla pianificazione a livello di Unione e di Stati membri che comprenda la capacità di prendere decisioni efficaci e accelerare le autorizzazioni, di mobilitare finanziamenti pubblici e privati adeguati e di innovare le risorse e i processi di rete”. La sua proposta è sempre la stessa: uno stato centrale che impone ai suoi cittadini le sue scelte senza la possibilità da parte degli stati nazionali di opporvisi, nemmeno attraverso la non applicazione delle misure. Ruolo centrale è dato a un non precisato “piano” di azione per “decarbonare” l’economia dell’intero continente “l’Europa ha bisogno di un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività. Questo piano dovrà garantire che all’ambiziosa domanda di decarbonizzazione dell’Europa corrisponda una leadership sulle tecnologie che la forniranno”. Naturalmente questo atteggiamento porta dritti dritti al protezionismo, un’altra sciagura sia per le imprese che per i consumatori che riducendo le possibilità di scelta dei prodotti saranno costretti a pagarli di più, visto che non essendoci concorrenza straniera i prezzi saranno più alti.
Infatti scrive Draghi “un piano congiunto per la decarbonizzazione e la competitività potrebbe comportare, in circostanze specifiche, misure commerciali difensive per livellare le condizioni a livello globale e compensare la concorrenza sostenuta dallo Stato all’estero, in linea con la nuova strategia di sicurezza economica dell’Ue”. L’intervento così ideato non avrebbe più limiti e infatti si inerpica a dire che “per migliorare il coordinamento, l’Ue potrebbe promuovere un “Piano d’azione europeo per la ricerca e l’innovazione”, elaborato dagli Stati membri insieme alla Commissione, alla comunità dei ricercatori e alle parti interessate del settore privato e le aziende dell’Ue dovrebbero essere incoraggiate a partecipare a un “Piano di priorità verticale per l’Intelligenza artificiale”. Draghi arriva anche a pensare che una ulteriore proposta sia quella “di aumentare ulteriormente le capacità di sequenziamento del genoma nell’Ue e di presentare un piano strategico per il periodo successivo al 2026, sulla base dell’iniziativa europea 1+ Million Genomes” la qual cosa ha implicazioni inimmaginabili per lo stesso concetto di umanità. Tutto il suo programma ruota attorno a un investimento economico di 800 miliardi. E per pagarlo Draghi propone di emettere debito.
Scrive l’ex presidente della Bce “se la strategia non venisse attuata appieno e la crescita della produttività non riprendesse potrebbe essere necessaria un’emissione più ampia di debito pubblico per rendere il finanziamento delle transizioni una proposta più realistica l’Ue dovrebbe orientarsi verso l’emissione regolare di asset comuni sicuri per consentire progetti di investimento congiunti tra gli Stati membri e per contribuire all’integrazione dei mercati dei capitali. Se vi sono le condizioni politiche e istituzionali descritte in precedenza l’Ue dovrebbe continuare a emettere strumenti di debito comuni sulla base del modello”. Nessuno però può garantire che il debito pubblico sia produttivo come ha giustamente notato il liberale Christian Lindner, ministro federale delle Finanze della Germania, il quale ha dichiarato che “potrebbe portare a un livello di debito complessivo nell’Unione europea troppo elevato. Se la Germania, in quanto maggiore economia dell’Ue, rompesse intenzionalmente il Patto di stabilità europeo che effetto ci sarebbe? Sarebbe un invito per tutti gli altri a non rispettare più queste regole”. E ha concluso che “il prestito congiunto dell’Ue non risolverà alcun problema strutturale: alle imprese non mancano le sovvenzioni. Sono incatenate dalla burocrazia e da un’economia pianificata. E hanno difficoltà ad accedere al capitale privato. Dobbiamo lavorare su questo aspetto. Più debito pubblico costa interessi, ma non crea necessariamente più crescita”.
Inoltre Draghi sa benissimo che ogni volta che si interviene nell’economia reale si dà inizio a un ciclo con tutte le implicazioni connesse a cominciare da una dinamica difficile da controllare o prevenire. Intanto nel rapporto si afferma che “i valori fondamentali dell’Europa sono la prosperità, l’equità, la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile”. Belle parole ma ciò che inquieta nella precedente affermazione è che questi principi su cui abbiamo costruito l’Ue non sono ritenuti assoluti, come la libertà, ma valgono solo in un “ambiente sostenibile” quindi relativi, modificabili e sottoposti a continua vigilanza per essere in linea con la “sostenibilità”. Poi una grande lacuna del documento è l’assenza di un’analisi sul ruolo che hanno nel mondo i Brics (Brasile, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, India, Iran, Russia, Sudafrica) che detengono una quota considerevole delle riserve energetiche planetarie. L’Europa di Draghi sarebbe chiusa in sé stessa in cui la crescita sarebbe legata all’intervento dello Stato e non alla libertà di impresa dei singoli. Inoltre, la creazione di aziende di dimensioni continentali, che lui prefigura attraverso fusioni e acquisizioni, che nel passato sono state osteggiate dalle istituzioni comunitarie, sarebbe la via alla monopolizzazione della economia europea in cui i piccoli verrebbero stritolati da multinazionali che avrebbero gioco facile a creare oligopoli e posizioni dominanti di mercato. Per queste ragioni il rapporto Draghi andrebbe criticato apertamente, cogliendo anche gli spunti positivi, senza lasciare però che ambiguità e timori reverenziali facciano più danni della sua applicazione in nome di quella libertà su cui fu edificata la comunità europea, anche se per l’ex presidente della Bce “una nuova strategia industriale per l’Europa non funzionerà senza cambiamenti paralleli all’assetto istituzionale e al funzionamento dell’Unione”. Niente di più rischioso per il nostro futuro.
di Antonino Sala