martedì 24 settembre 2024
A margine dell’indice della libertà economica nelle città italiane
Nelle prossime settimane si andrà al voto in tre Regioni: Liguria (27-28 ottobre), Emilia-Romagna e Umbria (17-18 novembre). La campagna elettorale ha le sue regole e nessuno si aspetta che i candidati, nell’esporre le proprie promesse, abbiano particolare riguardo per la fattibilità degli impegni presi. Sarebbe però importante che, fin da subito, essi ragionassero su quello che concretamente può essere realizzato e, ancora più importante, che sarebbe utile fare. In uno scenario in cui le Regioni e i Comuni hanno scarsa autonomia, le leve a loro disposizione hanno a che fare soprattutto con la qualità dei servizi pubblici. Ma, tra rallentamento dell’economia e difficoltà del bilancio pubblico, è improbabile che governatori e sindaci possano far conto su un aumento delle risorse a disposizione. Che fare, allora? Una possibile risposta viene dall’Indice della libertà economica nelle città italiane, realizzato dall’Ibl col supporto di Confcommercio Genova, che cerca di valutare quanto, nei diversi territori, l’attività economica può svolgersi libera da vincoli.
Tali vincoli possono avere diversa natura, per esempio possono essere legati alla fiscalità locale, al peso della macchina pubblica sul territorio, alla vitalità dell’economia o all’efficienza dei servizi pubblici (in particolare la giustizia). Ma c’è un punto che spesso viene ignorato: i servizi pubblici possono essere organizzati in molti modi, sia dal punto di vista delle modalità di affidamento, sia da quello dell’individuazione del loro perimetro. Troppo spesso, i Comuni e le Regioni non solo ne affidano la produzione a società controllate (anziché selezionare i soggetti più efficienti tramite gare), ma addirittura disegnano in modo estensivo l’ambito dell’intervento pubblico. In altre parole, gli enti pubblici si sostituiscono al privato in compiti che il privato stesso potrebbe svolgere meglio, o a costi inferiori.
Per fare un caso molto concreto: oggi famiglie e imprese finanziano il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti attraverso la Tari, mentre il lavoro viene svolto da società (generalmente pubbliche) che sovrintendono a ogni aspetto (per esempio la raccolta di tutte le tipologie di rifiuto a prescindere dal soggetto che lo produce). Siamo sicuri che questo sia l’unico assetto possibile? Siamo certi che, almeno per alcune tipologie di operatori economici e per specifiche tipologie di rifiuto, non si possa considerare di lasciare la possibilità di auto-organizzare raccolta e smaltimento, fermi restando gli obblighi di performance pari almeno a quelli previsti dal contratto di servizio per la nettezza urbana, a fronte di una decurtazione del tributo? Analoghi ragionamenti si possono fare per molti altri servizi, dal trasporto pubblico all’illuminazione cimiteriale. Sono domande aperte, che possono avere risposte differenti anche in funzione delle caratteristiche specifiche di ogni territorio. Non stiamo quindi sostenendo una particolare opzione politica. Stiamo però dicendo che, in questo come in tanti altri casi, porsi la domanda, evitando di dare per scontato che tutto vada bene così com’è, sarebbe un buon inizio.
di Istituto Bruno Leoni