giovedì 12 settembre 2024
La politica economica di Donald Trump incarna una visione ampia del principio “America First” (Prima l’America), che enfatizza la priorità degli interessi nazionali rispetto a quelli globali. Trump e i suoi sostenitori sostengono che il libero scambio abbia danneggiato l’economia americana, favorendo i Paesi stranieri a discapito degli Stati Uniti. Questo punto di vista si oppone alla tradizione preesistente, in cui la politica economica Usa era dominata dalle richieste di abolizione dei dazi doganali e di apertura dei mercati. Queste richieste si basavano su una visione economica sostenuta dai fautori del libero scambio e radicata nella scuola economica classica, con una particolare enfasi sulle teorie di David Ricardo.
La teoria dei vantaggi comparati, sviluppata da Ricardo nel 1817, è un principio fondamentale del libero scambio. Essa sostiene che ogni Paese dovrebbe specializzarsi nella produzione di beni e servizi per i quali ha un costo relativamente inferiore rispetto agli altri Paesi. In altre parole, un Paese possiede un vantaggio comparato nella produzione di un bene se può produrlo a un costo relativamente inferiore rispetto ad altri beni, anche se non è il produttore più efficiente in senso assoluto. Secondo questa teoria, il commercio internazionale consente ai Paesi di beneficiare della specializzazione e della divisione del lavoro, aumentando il benessere globale e permettendo a ciascun Paese di ottenere beni a prezzi più favorevoli, rispetto a quelli che avrebbe dovuto affrontare se producesse tutto autonomamente.
Ricardo stesso riconosceva i limiti del suo modello, basato sull’ipotesi che capitale e lavoro non potessero muoversi liberamente tra i Paesi. Tuttavia, l’analisi neoclassica successiva ha offerto rassicurazioni in merito. Questa analisi suggeriva che, con l’inizio del commercio internazionale, i prezzi dei beni tendono a uniformarsi a livello globale, influenzando anche i prezzi dei fattori di produzione. Se un Paese A esporta beni ad alta intensità di lavoro e importa beni ad alta intensità di capitale, la domanda di lavoro e i salari aumentano nel Paese A, mentre nel Paese B, l’aumento della domanda di capitale e la diminuzione della domanda di lavoro riducono i ritorni sul capitale e aumentano i salari. In questo modo, il commercio permette ai Paesi di beneficiare della specializzazione senza la necessità di trasferire fisicamente capitale o lavoro.
Nonostante queste prospettive ottimistiche, la realtà ha dimostrato che la visione di Ricardo potrebbe non essere completamente adeguata in un mondo oramai globalizzato. La mobilità del lavoro e del capitale tra i Paesi è aumentata grazie ai costi ridotti di trasporto e comunicazione, ma non esistono prove convincenti che i prezzi dei fattori siano uniformi a livello mondiale. Questo suggerisce che i vantaggi comparativi, sebbene significativi, non sono l’unico fattore che determina il commercio internazionale. Così, quando il capitale si sposta verso Paesi dove può essere utilizzato in modo più produttivo, il libero scambio può avvantaggiare solo i Paesi di destinazione, creando situazioni di vantaggio per alcuni e svantaggio per altri, piuttosto che benefici reciproci per tutti i partner commerciali.
Inoltre, la teoria del vantaggio comparativo assume che le risorse possano essere trasferite facilmente tra settori produttivi. Tuttavia, se tale trasferimento non è possibile, le importazioni potrebbero non spingere l’economia a concentrarsi sui settori più adatti al suo vantaggio comparativo, danneggiando le industrie esistenti senza creare nuove opportunità. Se i lavoratori non potessero facilmente passare da un settore all’altro, potrebbero trovarsi disoccupati o costretti a occupazioni precarie, con conseguente riduzione della produttività complessiva.
Un ulteriore problema riguarda le esternalità. Le industrie che generano esternalità positive possono trovarsi a competere con concorrenti esteri e, se sopraffatte dalla concorrenza, perdere non solo il loro contributo diretto, ma anche i benefici indiretti, come innovazioni e miglioramenti tecnologici. Se i costi esterni, come il degrado ambientale, non sono inclusi nei prezzi di mercato, i prodotti che causano danni ambientali possono apparire artificialmente economici. Questo porta a una produzione e consumo eccessivo di beni inquinanti e a un aggravamento dell’ambiente, poiché il mercato non incentiva sufficientemente le imprese a ridurre i danni ambientali. Inoltre, il commercio internazionale non avviene come uno scambio diretto di beni, come ipotizzato dalla teoria classica, ma attraverso transazioni monetarie.
Le fluttuazioni nei tassi di cambio influenzano direttamente il valore delle esportazioni e delle importazioni, contrariamente alla visione del commercio come baratto. La teoria della quantità di denaro (ovvero, l’idea che la quantità di denaro in circolazione determina il livello dei prezzi e, quindi, l’inflazione) ignora anche l’importanza della velocità di circolazione del denaro e dei tassi di interesse, che influenzano l’inflazione e le transazioni internazionali. In effetti, l’esportatore non è obbligato a spendere immediatamente il denaro guadagnato dalla transazione; può conservarlo e spenderlo in un momento successivo, il che altera ulteriormente la dinamica commerciale.
Ancora, Ricardo e gli economisti classici assumevano che, in un’economia liberalizzata, lavoro e capitale fossero sempre pienamente utilizzati, un presupposto derivante dalla legge di Jean-Baptiste Say. Tuttavia, molti Paesi affrontano disoccupazione e risorse sottoutilizzate, rendendo questo presupposto meno applicabile. Questo suggerisce che un Paese potrebbe ottenere maggiori benefici stimolando la produzione interna piuttosto che partecipare esclusivamente al commercio internazionale.
Nei Paesi industrializzati, il commercio internazionale ha portato a guadagni dinamici, come avanzamenti tecnologici e un incremento del tenore di vita. I guadagni dinamici comprendono l’innovazione e la crescita della produttività, che sono fondamentali per una crescita economica sostenibile a lungo termine. I guadagni statici, al contrario, si riferiscono ai benefici immediati, come la riduzione dei prezzi e una migliore allocazione delle risorse. Le aziende tecnologiche che operano a livello globale tendono a investire maggiormente in ricerca e sviluppo, migliorando l’efficienza e il benessere dei consumatori.
In conclusione, sebbene la teoria dei vantaggi comparativi e l’ottimismo che ha generato abbiano alimentato una visione positiva del commercio internazionale, è essenziale riconoscere che questa visione non è priva di complessità e rischi. L’apertura dei mercati globali ha generato significativi benefici economici, come l’aumento dell’innovazione e della produttività, ma tali benefici non sono distribuiti uniformemente. Le sfide concrete, come l’incremento delle disuguaglianze, le esternalità ambientali e le difficoltà di adattamento per alcune industrie e lavoratori, devono essere affrontate in modo proattivo.
Per affrontare queste sfide, è cruciale che una politica statale efficace vada oltre l’ottimismo teorico e adotti misure concrete. È necessario esaminare attentamente le possibili perdite derivanti dall’integrazione nei mercati globali e implementare politiche adeguate a mitigare gli effetti negativi. Queste misure potrebbero includere il sostegno alle industrie vulnerabili, la promozione della formazione e della riqualificazione dei lavoratori e l’adozione di politiche ambientali per compensare i danni collaterali del commercio. Solo attraverso una valutazione completa e una gestione attenta delle sfide, uno Stato può ottimizzare i benefici del commercio internazionale e garantire una crescita economica inclusiva e sostenibile per tutti i suoi cittadini.
(*) Economista
di Enea Franza (*)