Il debito pubblico tra cultura della rendita e del mercato

martedì 10 settembre 2024


La crescita del debito pubblico ha avuto nel tempo una dinamica costante a partire dagli anni Settanta, quando con la fine del “gold exchange standard”, Richard Nixon nel 1971 creò le condizioni per una finanza senza regole e noi ne subimmo l’impennata. Come si vede nei grafici seguenti in cui si può verificare le relazioni tra crescita del debito legata alla fine del gold exchange standard e quella del Pil e il rapporto tra le due grandezze. Si vede chiaramente come a ridosso del 1971 noi abbiamo l’impennata del debito per l’effetto inflattivo generato dagli Stati Uniti, che creano il petrodollaro e il sistema Swift per mantenere il dollaro come moneta preminente. Noi ne subiremo l’effetto che ci condizionerà sempre negli anni successivi.

La dinamica del debito cresce nel nuovo secolo più rapidamente di quella del Pil, a partire dalla crisi di Lehman Brothers del 2008, in cui la prima bolla finanziaria degli anni Duemila è scoppiata, e ha avuto effetti sulla produttività del Paese nel complesso. La finanziarizzazione delleconomia reale che ne è stata prosciugata ha avuto effetto sia sullo sviluppo delle nuove iniziative imprenditoriali, per una maggiore contrazione della cultura del mercato, a favore di un modello culturale più pervasivo che è quello della rendita. Entrambi i modelli sono figli della nostra storia e hanno origini nelle diverse matrici alle quali si possono fare risalire. La storia agricola del Paese ha avuto, come già ricordato nel saggio “I motivi storici e culturali del federalismo” due sviluppi. Al nord, il rapporto tra proprietà e lavoranti conosceva un vasto ricorso al contratto di “mezzadria”, al sud invece la forma di rapporto lavorativo preminente era quella del latifondo.

Nel caso della mezzadria, il mezzadro condivideva i frutti del lavoro con il proprietario, coinvolgendo la famiglia e la comunità allargata, per ottenere il massimo risultato, ma era anche condannato al rischio, nel caso di raccolti perduti. Nel latifondo, il bracciante era remunerato indipendentemente dalla sua prestazione e dal risultato della stessa. La storia ha dimostrato che le terre coltivate a mezzadria si sono evolute verso l’artigianato, il commercio e l’impresa dovute alla necessità di essere creativi, per non sottostare al caso o ad una storia negativa e ci si orientava verso una cultura del mercato. Nel latifondo, al sud del Paese, invece si veniva a creare una sorta di schiavitù della rendita, che ha sviluppato una forma di dipendenza dalla cultura della rendita creando nel bracciante l’aspettativa di diventare a sua volta un renter.

Così, dove si è sviluppata la mezzadria è coinciso uno sviluppo imprenditoriale. E i settori industriali del nord coincidono esattamente con quelle aree geografiche. Altrove, dove prevaleva il latifondo, si è sviluppata una miriade di piccole o grandi rendite legate al pubblico impiego, all’assistenzialismo e nelle classi più elevate allo sviluppo di attività professionali in cui si è specializzata la borghesia meridionale. Così, la mezzadria ha portato i lavoratori alle dipendenze del settore privato mentre il latifondo ha portato i lavoratori nel settore pubblico. I più bravi dei primi sono diventati imprenditori mentre i secondi sono diventati gestori del potere.

Con l’evolversi delle società verso forme di maggiore urbanizzazione, con modelli più frammentati e con una più profonda scolarizzazione, le due culture sono venute maggiormente a contatto e oggi la rendita, specie nel settore politico e pubblico, tende a prevalere su quella del mercato. A Roma, che diventa la sede della politica e della burocrazia, nei rispettivi ranghi tendono a confluire più ex-braccianti che ex-mezzadri. anche perché l’idea di vivere di rendita è più appetibile di quella di vivere delle fluttuazioni dei mercati. La distonia e il venire meno di un paritetico contributo allo sviluppo del Paese e alla maggiore diffusione della cultura della rendita dipende dalla maggiore invasività di questa, perché si insinua in modo inarrestabile e vischioso accompagnandosi con una modalità di vita più oziosa ma il modello culturale della rendita uccide la speranza e la creatività, che sono le vere forze che spingono avanti le società e, come scriveva Arnold J. Toynbee a sua volta ricordato dal Papa Benedetto XVI: “Sono le minoranze creative che portano avanti le società nella storia dell’uomo”. La cultura della rendita è pervasiva, e si basa sulla creazione di debito pubblico. Come la nostra storia dimostra, quando nel Primo dopoguerra l’economia è esplosa per la miriadi di artigiani, creativi e lavoratori che hanno fatto dell’Italia un Paese trasformatore, e senza particolari risorse naturali una delle economie più avanzate del mondo.

Il venire meno nel tempo di quella audace cultura del mercato e della tensione al cambiamento verso il futuro viene addormentata in un sonno oppiaceo che soffoca la creatività e la spinta a cambiare, demotivando il cambiamento con una esacerbante e continua azione promossa da una burocrazia centrale frutto della cultura della rendita, che vive su Marte lontana dai problemi reali e dalla voglia di cambiare. Ma mossa dal rimanere inchiodati allo status quo. Sono almeno 40 anni che noi non produciamo più cultura vera, ma applichiamo con una subordinazione suicida quel modello che una cultura diversa dalla nostra ci impone, una cultura che sta facendo collassare il modello occidentale, e gli Usa per primi. Questi ultimi stanno vivendo su un mare di debiti che si autogenera in modo non sostenibile, come stiamo facendo noi.

Il processo di riunificazione del Paese ha subito un maggiore effetto da parte della cultura della rendita che da quella del mercato. Così lo stesso nord, che non è più il luogo dove tutti sono disposti a rischiare e a mettersi in proprio, è un luogo molto più vicino ad una mentalità specifica, facendo prevalere anche lì la cultura del bracciante e della rendita, con una minore propensione al rischio. La finanziarizzazione è diventata un culto sacrale, e ha voluto imporre a tutti l’idea che si potesse diventare ricchi facendo debiti avendo la classe politica come primo soggetto a cavalcare questa idea. La cultura delle rendita si è sviluppata con una stretta occupazione dei centri di potere, dei partiti, dei ministeri, dei corpi di armata, della magistratura e della finanza stessa, che una volta era ad appannaggio agli uomini del Nord. la spesa per le amministrazioni centrali e locali è in crescita, in controtendenza rispetto al Pil.

Il cerchio si è chiuso quando la stessa classe politica è stata presa dalla necessità di ricorrere alla rendita come scambio con l’elettorato, per i voti necessari a governare. E oggi la nostra classe dirigente dimostra la presenza maggioritaria dei territori del sud del Paese al governo. La diffusione della cultura della rendita e il suo legame con le logiche di governo ha dato luogo ad un inarrestabile familismo, che divora nelle Istituzioni il principio del merito, che rimane solo quello dell’appartenenza. Così ci troviamo una governance priva di cultura vera, che vive alla giornata di sondaggi dopinione. I fatti quotidiani mostrano un azzeramento generale della cultura a partire dai “media”, che sono condannati a pubblicare il nulla delle vanità quotidiane, ma niente di un mondo che la geopolitica sta rimodellando a nostro svantaggio. La conseguenza è lo sviluppo del debito pubblico che è cresciuto più per la parte corrente che per investimenti (come si vede dal seguente grafico).

Il ricorso alla spesa corrente è funzionale a comperare il consenso, per una politica che vive di rendita, perché non ha una cultura creativa ma prevalentemente di imitazione da altre decretate fallite dalla storia. Il debito così creato è difficilmente riducibile, poiché incide sulle aree elettive di chi governa, e solo la capacità culturale di conoscenza della levitazione del debito e delle sue cause può essere funzionale ad una sua riduzione. È necessario prendere consapevolezza dei fatti per potere intervenire su di essi.

Al ministro dell’Economia, consiglierei di valutare tutte le voci di spesa dei vari ministeri per verificare la loro frammentazione in infiniti rivoli legati ad interessi personali a finanziare un circolo sportivo, un’associazione fedele, un circolo di amici, posti in sanità o altro ancora, per amici degli amici noncuranti che si sta mandando il Paese allo sbando. Molti di questi impegni non superano i 100 euro, che metterei come limite al di sotto del quale con un tratto di penna cancellerei tutti, così come le centinaia di enti inutili alla Nazione, ma solo al politico che li finanzia nel rigoroso rispetto della inaffondabile cultura della rendita.

Ma tutto questo meriterebbe una nota specifica di guida a chi si occupa di contabilità pubblica. Quella dei Quintino Sella, che il 30 marzo 1868 faceva, con riguardo al Paese, una considerazione attuale anche oggi: “In Italia non v’ha abbastanza desiderio di arricchirsi per mezzo del lavoro e del risparmio. Regna una inattività generale non solo nel campo economico, ma eziandio nello scientifico, nel letterario, nel politico. Questo quietismo è la morte di una Nazione”.

(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano


di Fabrizio Pezzani (*)