L’anti-concorrenza del decreto concorrenza

venerdì 9 agosto 2024


Il provvedimento basato su opinioni diffuse, che non tengono conto delle dinamiche del mondo reale né della teorica economica

È stato da poco licenziato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge annuale sulla concorrenza, che il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha ritenuto essere “un’altro passo significativo nella giusta direzione di aumentare la competitività del nostro Paese anche attraverso la concorrenza interna”. Il provvedimento, che rispetta la cadenza annuale ed è il quarto dopo quelli del 2017, 2022 e 2023, contiene misure in materia di dehors, portabilità delle scatole nere ai fini assicurativi, trasporto pubblico non di linea, rilevazione dei prezzi, shrinkflation e startup innovative, oltre a ulteriori rilevanti misure di competenza di altri dicasteri.

La sua finalità dichiarata, come riporta l’articolo 1, “interviene a rimuovere ostacoli regolatori all’apertura dei mercati, a promuovere lo sviluppo della concorrenza e a garantire la tutela dei consumatori, anche in applicazione dei princìpi del diritto dell’Unione europea in materia di libera circolazione, concorrenza e apertura dei mercati, nonché alle politiche europee in materia di concorrenza”. In tal modo, rende senz’altro palese di essere ancorato alla teoria tradizionale della concorrenza, conosciuta come teoria della “concorrenza pura e perfetta”, che è dominante sia nei circoli accademici che nelle legislazioni di molti paesi del mondo e, più specificamente, in Europa. Questa è caratterizzata da una serie di presupposti ricollegati a una visione meramente tecnica, secondo cui alcuni metodi di produzione esistono indipendentemente da qualsiasi intenzione umana e da ogni decisione, e che l’unico ruolo degli imprenditori consista nell’applicare questi metodi di produzione.

Finisce così per diventare una sorta di teoria dell’economia pianificata, che è ben lontana dalle dinamiche del mondo reale, che è un mondo di innovazione ed è altresì un mondo di profitto, perché questo è esattamente il rendimento ottenuto dall’innovazione. E non considera l’essenziale criterio etico, vale a dire la libertà, la quale induce a rilevare l’esistenza della concorrenza in un mercato solo quando i produttori sono sempre liberi di accedere ad esso, e i consumatori sono liberi di scegliere il produttore i cui beni essi desiderano.

A parte ciò, e ancor più di fondo, il provvedimento sembra voler contrastare la formazione dei monopoli, assumendo, in tal caso, la diffusa l’opinione che siano favoriti dall’economia di mercato. Da ciò deriverebbe che, se nel mercato esiste un solo produttore per un dato bene, questo finisce per “sfruttare” i consumatori, imponendo un prezzo più alto del “prezzo di concorrenza”. Allo stesso modo, allorché vi sia un piccolo numero di produttori, verso questi si nutre il sospetto della “cospirazione” per esercitare un potere monopolistico. Così, il solo pronunciare la parola monopolio finisce per suscitare reazioni ostili, che sollecitano l’intervento dirigista e regolatore della legislazione statale sulla concorrenza.

Storicamente, una prima legislazione anti-monopolio, ispirata chiaramente dalla richiamata diffusa opinione, si è formata con le norme emanate dopo la caduta dell’ancien régime contro i privilegi delle corporazioni, anche se, a parte le disposizioni introdotte per la prima volta in Canada – con l’approvazione nel 1889 delle leggi contro gli accordi restrittivi della concorrenza – il primo testo moderno di una certa importanza si rinviene nello Sherman Antitrust Act. Esso rappresenta la prima legge antitrust, emanata dal Congresso degli Stati Uniti su proposta del senatore dell’Ohio John Sherman nel 1890, ma concretamente applicata solo nel 1911 contro l’impero petrolifero di John Davison Rockefeller e contro l’American Tobacco Company. Promulgata con lo scopo di promuovere la concorrenza fra le imprese e di impedire le intese monopolistiche, detta legge ha anticipato le legislazioni antimonopolistiche introdotte nel corso del XX secolo (la antitrust legislation) e influenzato le legislazioni europee.

Ebbene, nonostante i proclami accattivanti, le intraprese azioni antimonopolistiche, inappropriate e tecnicamente forvianti, hanno mostrato, sin dagli albori, tutti i loro limiti e, peraltro, palesato atteggiamenti ambivalenti, favorevoli e insieme sfavorevoli ai monopoli, oltre che contraddittori, dei legislatori. Che hanno finito unicamente per avvantaggiare i produttori meno efficienti, a discapito dei concorrenti meglio in grado di soddisfare i clienti. Del resto, non hanno tenuto conto della circostanza che, in pratica, la maggior parte dei monopoli conosciuti era ed è di natura statale o formati per patente regia (licenze, concessioni, autorizzazioni, ecc.), i quali non rispondono sovente ad alcuna logica economica e sono onerosi per la collettività.

Né, comunque, hanno considerato, anche alla luce della teorica economica, che solo nel caso di beni come ad esempio l’atmosfera o l’acqua da bere, appartenenti, per loro natura, ad un campo completamente diverso dagli altri beni di consumo, chi detiene il monopolio di tali beni si potrebbe trovare nella condizione di imporre a tutti gli altri la propria volontà e di ottenere un’obbedienza cieca e illimitata. Contro un monopolio siffatto, è ovvio, non potrebbe essere attivata alcuna azione economica concorrenziale.

Al di fuori di tali casi limite, e del monopolio – peraltro irrealizzabile – su un bene che in una quantità minima è necessario alla sopravvivenza umana, non si rilevano quegli effetti che comunemente vengono ricollegati ai monopoli. Infatti, quand’anche dovesse emergere spontaneamente nel mercato una posizione monopolistica, o comunque di predominio di un’impresa, ciò rappresenterebbe il giusto premio per la sua superiore capacità di soddisfare i consumatori. Dall’altro, esprimerebbe una posizione transitoria, difficile da difendere, qualora vi sia libertà di entrare nel mercato. Addirittura, l’unica difesa valida sarebbe quella di applicare il prezzo più conveniente, posto che solo in tal modo eviterebbe che un nuovo concorrente si presenti sul mercato. Proprio per questa costante minaccia, e per questa persistente concorrenza potenziale – pur esistendo un’unica impresa – i prezzi da essa fissati non sarebbero monopolistici, bensì prezzi di concorrenza.

Infatti, le leggi che regolano i prezzi di monopolio non sono né più né meno che quelle che regolano gli altri prezzi. Non è assolutamente vero che il monopolista possa fissare i prezzi a proprio piacimento. I prezzi dell’offerta che egli immette sul mercato influenzano la domanda degli acquirenti: la domanda si espande o si contrae a seconda del prezzo richiesto, e il monopolista deve tenere conto di ciò esattamente quanto qualsiasi altro venditore. Pertanto, se quello dei monopoli economici può considerarsi un falso problema – al quale però sono state ugualmente opposte soluzioni oltremodo ideologiche e antieconomiche – non vi è alcun dubbio che, ancora nel XXI secolo, il vero problema è piuttosto quello dei monopoli legali, apprestati da una legislazione statale pervasiva, che ha consentito alla mano pubblica di esercitare un dominio crescente sulla realtà economica.

Di tanto già Ludwig von Mises ha avuto grande contezza, allorché ha ammonito che “il grande problema monopolistico che l’umanità oggi deve affrontare non è in conseguenza dell’eccessivo sviluppo dell’economia di mercato. Esso è il prodotto dell’azione deliberata dei governi. Non è un male inerente al capitalismo, come strombazzano i demagoghi. Al contrario, è frutto di politiche ostili al capitalismo e volte a sabotarne e distruggerne il funzionamento”.


di Sandro Scoppa