mercoledì 7 agosto 2024
L’interventismo economico: la cifra costitutiva della storia Italiana
L’interventismo e la dottrina interventista costituiscono una vera e propria costante di gran parte della storia dell’Italia unitaria. L’interventismo postula una svariata moltitudine di iniziative, di misure e di provvedimenti che le pubbliche autorità pongono in essere per il perseguimento di asserite finalità di politica economica.
Si va quindi dagli “interventi politici sulla produzione”, che fanno leva sugli strumenti tipici del protezionismo economico (dazi doganali, barriere non tariffarie, contingentamenti, ecc.) e sono intesi a vietare o limitare la produzione di certi beni per arrivare agli “interventi politici sui prezzi”, che mirano invece a manipolare il prezzo di mercato di determinati beni e servizi. Come l’analisi teorica, la logica e le evidenze empiriche hanno ormai ampiamente dimostrato, la credenza che il benessere possa scaturire e dipendere dagli svariati interventi dello Stato, in luogo del progresso tecnologico e dell’accumulazione del capitale, può forse produrre dei fuggevoli benefici nel breve termine, ma sicuramente arrecherà disastrose conseguenze nel medio-lungo termine.
Ciò che si vede e ciò che non si vede
Quando l’allocazione politicizzata delle risorse prende il sopravvento su quella competitiva e quando la cooperazione volontaria viene soppiantata dalle decisioni arbitrarie assunte dal potere pubblico ci troviamo di fronte a scenari che prestano il fianco a una lettura ambivalente: da una parte assistiamo a degli effetti immediati e diretti, che si sostanziano in ciò che i detentori del potere politico ambiscono a farci vedere; dall’altra ci sono le conseguenze lontane e indirette, molto più difficili da ravvisare e da ponderare, e che si riflettono in tutto ciò che i governanti cercano di occultare ai governati. Ciò che si vede, nell’ambito dell’interventismo statale, sono i presunti guadagni che un determinato gruppo sociale avrebbe spuntato grazie all’adozione di una ben precisa manovra economica; ciò che non si vede sono invece i costi complessivi del dirigismo economico, in termini di sprechi, rinunce, fallimenti, minori opportunità, potenzialità inespresse e innumerevoli occasioni mancate che le persone potrebbero cogliere mettendo a frutto le migliori strategie cooperative, nell’ambito di contesti operativi privi di ingerenza politica.
Del resto, la macchina statale non esita a fare ricorso alla retorica più spudorata e capziosa o ad addurre i più svariati pretesti per celare la reale natura della propria attività di interposizione: che non è altro che il frutto avvelenato di artifici contabili e di illusioni finanziarie.
Il blocco degli sfratti: il “teorema di Sowell” e l’azzardo morale
Ma non è tutto: perché l’interventismo paternalista non solo risponde a un irresistibile incentivo, che per brevità potremmo chiamare il “teorema di Sowell”, in nome del suo estensore: “La prima lezione di economia è la scarsità: non ci saranno mai abbastanza risorse per tutti coloro che le desiderano. La prima lezione della politica è quella di ignorare la prima lezione di economia”. Ma sconta anche un’ineliminabile tara, che potremmo latamente qualificare come “principio dell’eterogenesi dei fini” o delle conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali: gli “uomini di sistema” che desiderano progettare in tutto e per tutto le nostre esistenze sono oltremodo pieni di sé per comprendere che troppe volte l’intervento, per sua stessa natura, determina delle conseguenze impreviste e imprevedibili, di cui non si è tenuto conto quando lo si è pianificato a tavolino. Ciò li costringerà a ricorrere a delle giustificazioni per razionalizzare gli aspetti imprevisti e imprevedibili di tali conseguenze, per le quali si rivendica la necessità di un ulteriore intervento per correggere gli effetti indesiderati; a sua volta tale intervento produrrà un blob esplosivo e non più contenibile di reazioni a catena sfuggite di mano, che possono sfociare in un evento raro e gravido di esiti sconvolgenti.
Non fa certo eccezione a questa regola generale il provvedimento che, di proroga in proroga, ha confermato – a decorrere da marzo 2020 e ora sino al 30 giugno 2021 – la sospensione degli sfratti sugli immobili (la misura è più conosciuta come “blocco degli sfratti”). Essendo impedita l’esecuzione dei provvedimenti di sfratto già stabiliti dai tribunali, i proprietari risultano di fatto impossibilitati a riprendere possesso degli immobili concessi in affitto, tanto nel caso in cui il contratto sia scaduto, quanto soprattutto nel caso in cui l’inquilino si dimostri moroso. L’intento dei promotori è quello di contenere gli effetti della crisi economica causata dall’emergenza pandemica, prevedendo, per via di una presunzione tanto semplice quanto pericolosa, una tutela incondizionata della parte contrattuale reputata “debole”. Di converso, i proprietari, che di fatto vengono espropriati del loro bene, devono continuare a pagare le tasse sull’immobile ancorché non percepiscano i canoni pattuiti da mesi. Del resto, in base a una ben precisa visione ideologica, il proprietario è il “padrone ricco” che per definizione vessa l’inquilino. Non importa se nella categoria dei proprietari rientrino anche pensionati, operai o lavoratori dipendenti, ora magari in cassa integrazione, che negli anni hanno investito i propri risparmi nel mattone e che ora rischiano di essere il facile bersaglio di coloro che possono sfruttare a proprio vantaggio gli incentivi offerti da questa situazione di “azzardo morale”.
Ma, come sempre accade, la dura legge della realtà e i fatti della vita economica dimostreranno che gli interventisti si sbagliano di grosso. Ironia della sorte, i primi a essere penalizzati saranno proprio i “soggetti deboli” che il provvedimento intende tutelare.
Una cascata di effetti collaterali
L’effetto collaterale più immediato del blocco degli sfratti, cioè la conseguenza non voluta, sarà infatti la penuria di alloggi nel medio e nel lungo periodo, un fenomeno che inevitabilmente avrà maggiori impatti su coloro che non dispongono di un’abitazione di proprietà. I proprietari, pur di scongiurare il possibile esproprio da parte di uno Stato accondiscendente, tenderanno ad abbandonare i contratti di locazione a lungo termine, optando per un diverso impiego del proprio immobile (contratti a breve, cambio di destinazione). Ma vi è un secondo effetto che con tutta probabilità troverà realizzazione, con delle ripercussioni ancora più insidiose se possibile: non potendo più contare su una legittima forma di entrata e non vedendosi più garantito il proprio titolo proprietario, il locatore ridurrà gli investimenti per la cura e per la manutenzione dello stabile, onde mantenere la profittabilità in altre forme di investimento, o venderà l’immobile a qualcun altro che si comporterà nello stesso modo. Si registrerà, cioè, un inevitabile e progressivo degrado della qualità del bene. Potenzialmente, per evitare le conseguenze inintenzionali del suo intervento originario, il governo dovrebbe allora attuare un’ennesima misura emergenziale che imponga ai locatori di mettere a disposizione gratuitamente l’immobile a ogni inquilino bisognoso. Si capisce bene, quindi, perché qualsiasi intervento riparatore sarebbe poi foriero di inimmaginabili effetti devastanti.
Comunque sia, il blocco degli sfratti non costituirà solamente il cimitero degli affitti, ma anche una forte causa di compromissione del mercato immobiliare.
Libertà di scelta e diritti di proprietà
L’azione dell’interventista è alimentata dalla previsione di disposizioni e di provvedimenti auto-legittimanti, che definiscono un universo giuridico sempre più costellato di diritti amorfi, non commerciabili e collettivi, con cui vengono frustrate le logiche del coordinamento sociale e manomesse le dinamiche dei prezzi.
Lo scenario di incertezza e di indeterminatezza che grava sui diritti di proprietà è in grado di generare dei risultati favorevoli e dei guadagni solo per la classe politico-burocratica al comando, che può disporre a piacimento dei beni e delle risorse che si trova ad amministrare e di cui si riserva il controllo, celandosi dietro l’asserita attribuzione di tutelare l’interesse collettivo e di curare il bene comune; e per le sue clientele, che si contendono la conquista e il consumo parassitario delle risorse confiscate a chi, in precedenza, quelle risorse le ha legittimamente costituite attraverso i canali cooperativi della produzione, dello scambio e del dono libero e volontario. Quella di “bene comune” è però un’idea straordinariamente potente e scivolosa, un guscio vuoto che può essere riempito a piacimento da chi detiene le redini del potere. Come ci ammoniva Sergio Ricossa: “L’unica definizione di bene comune e di interesse generale è tautologica: è quel che fanno i politici al potere, qualunque cosa facciano, compreso il rubare ai poveri per regalare ai ricchi”.
Se è vero che i diritti di proprietà privata costituiscono un pilastro imprescindibile per l’espressione dell’autonomia individuale e della libertà di scelta, il fatto che i detentori del potere politico possano arrogarsi impunemente la potestà di controllarli minuziosamente o addirittura di abolirli frustra e pregiudica sin dall’origine la possibilità che ogni persona sia messa nella migliore condizione per perseguire lo sviluppo delle proprie inclinazioni e della propria personalità.
L’istituto della proprietà privata è, di fatto, un fortilizio che garantisce a chiunque la detenzione e il controllo di un determinato complesso di fattori produttivi e dei frutti della loro applicazione, grazie ai quali ognuno può responsabilmente stabilire come e in funzione di cosa vivere la propria esistenza, dando concretezza a valori, idee, ambizioni e aspirazioni che si collocano in una sfera squisitamente soggettiva.
Oltretutto, se tali risorse vengono ineluttabilmente taglieggiate da un potere terzo, va da sé che la sola possibilità di pensare, agire e operare in maniera difforme da quanto statuito da chi comanda diventa una pura chimera. La “via della schiavitù”, per dirla con Hayek, è incessantemente lastricata di buone intenzioni.
(**) L’articolo di Cristian Merlo è tratto dalla pubblicazione del saggio “Controllare gli affitti, distruggere l’economia” a cura di Sandro Scoppa
di Cristian Merlo (*)