martedì 2 luglio 2024
“È giunto il tempo di capire che non siamo di fronte a una crisi ordinaria che capita più o meno ogni decennio ma davanti a una delle grandi transizioni della storia umana quando a una forma di cultura ne succede un’altra”. Lo scriveva Pitirim Aleksandrovič Sorokin nel 1941 in La crisi del nostro tempo riprendendo il percorso di analisi dell’evoluzione delle società dell’uomo nella storia, in linea con i grandi pensatori europei che sulla traccia indicata da Giambattista Vico hanno cercato di capire le leggi universali che sembrano guidare il nostro tempo sempre oscillante fra fasi di guerra e scontro ad altre di riconciliazione e di collaborazione. Oggi, siamo forse a una di queste grandi transizioni. I momenti di difficoltà che stiamo vivendo a tutti i livelli sempre più chiaramente sono collegabili a un problema di uomini, di valori e di modelli sociali e culturali e non a tecniche di regolazione dei mercati e quindi dell’economia e della finanza: questa crisi è stata generata da uomini e dai loro modelli culturali non da eventi naturali e imprevedibili. Il modello culturale dominante in questi ultimi quarant’anni si è fondato sul paradigma secondo cui l’economia sia il fondamento per avere una buona società in cui siano realizzabili gli ideali di libertà, di uguaglianza e di felicità. Il risultato ottenuto, però, è stato esattamente l’opposto con la frammentazione di una società in cui il modello dominante è diventato l’interesse personale da perseguire a qualsiasi costo e a scapito del bene comune.
Affermare il paradigma che l’economia sia il fondamento della società comporta, sinteticamente, la definizione di due ipotesi:
1) L’economia in quanto indipendente dalla società (le modalità associative sono scelte dall’uomo) assume il ruolo di sapere morale può essere studiata con lo stesso abito mentale con cui si studiano le scienze positive (fisica, chimica). Quindi solo su ciò che è misurabile e indipendentemente dalla natura dell’uomo (la società). Tale ipotesi, però, è del tutto arbitraria in una scienza sociale come l’economia dove gran parte dei fenomeni non sono misurabili. Ne consegue l’applicazione autoreferenziale ed esclusiva di modelli di analisi di tipo matematico e quantitativo. Ma nell’economia, a differenza delle scienze positive, il nostro pensiero e la nostra natura sono parte integrante della realtà osservata ed influenzano sempre le sue scelte.
2) La massimizzazione dell’economia va perseguita a qualsiasi costo come obiettivo preminente, perché ne consegue in modo automatico l’incremento del bene comune della società: l’economia diventa la variabile indipendente e la società quella dipendente e l’uomo da fine diventa mezzo.
Infine, si afferma che il modello sociale in grado di massimizzare l’economia e quindi il benessere della società sono il capitalismo e il liberismo che hanno come scopo la massimizzazione del profitto personale e possono essere studiati in modo esatto e applicati solo con una modellistica razionale prescindendo dalla natura dell’uomo. Lo scopo determina sempre i mezzi, quindi tramite la deregulation prima e la finanziarizzazione dell’economia reale poi si percorre la via indicata come verità assoluta. La cultura dominante viene deificata e i mercati diventano razionali. Non è vero ma fa comodo a coloro che li governano. La realizzazione dello scopo non viene messa in discussione, ma il modello, senza un ordine morale, finisce per affermare la genetica e suicida aggressività dell’uomo. Così, il più forte domina sempre gli altri e la sua natura buttata fuori dalla porta rientra dalla finestra.
Il paradigma culturale portato all’estremo genera un processo di concentrazione di ricchezza senza pari nella storia e un modello sociale individualista e conflittuale, la società si disgrega, collassa con tutte le sue patologie rimettendo in gioco l’eterno pendolo della storia dell’uomo – i corsi e ricorsi storici – che deve riportare un’armonia sociale necessaria per recuperare un equilibrio fra le classi in grado di ricomporre una visione più condivisa della società. Ripensare al senso del nostro tempo significa riportare l’uomo e la società al centro del nostro interesse con un rispetto e un equilibrio meno precari ma questo non può essere fatto senza un ripensamento profondo del ruolo dell’economia nella nostra vita e dei suoi attuali metodi di studio. È su questo paradigma che vanno declinate le politiche di sviluppo sociale ed economico anche territoriali per favorire una visione più raffinata e aderente della realtà ed evitare di continuare a cadere nell’errore di operare sempre sui mezzi quando invece è ora di confrontarsi sui fini.
(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano
(**) La crisi del nostro tempo di Pitirim Aleksandrovič Sorokin, Arianna Editrice, 288 pagine, 15,40 euro
di Fabrizio Pezzani (*)