Sharing economy, un’opportunità prodotta dalla cooperazione globale

martedì 18 giugno 2024


Finita sotto i riflettori grazie a realtà innovative,
si è ormai affermata negli ultimi decenni,
trovando applicazione in diversi
settori economici e sociali

L’economia della condivisione (o sharing economy) esprime un fenomeno nato spontaneamente, al pari della maggior parte delle istituzioni sociali (come ad esempio la moneta, il linguaggio, le città, il diritto, mercato, ecc.), che si riconosce in molti settori, e soprattutto nell’ambito dei finanziamenti (vedi il crowdfunding), della produzione (ad esempio Gnu/Linux, l’open hardware Arduino), dell’apprendimento (come SkillShare, Wikipedia), del lavoro e del consumo collaborativo (BlaBlacar, Airbnb, HomeExchange.com, Amazon, eBay, ecc.).

Proprio eBay, il sito di vendita e aste online fondato il 3 settembre 1995 da Pierre Omidyar a San Jose, in California, rappresenta uno dei primi esempi di sharing economy nell’era digitale, che si è poi evoluto a partire dal 2002, con la fusione con l’istituto di credito PayPal. Essa si è rapidamente diffusa in ogni parte del pianeta, raggiungendo e coinvolgendo, anche a molta distanza, persone, ambienti, luoghi, beni e servizi: una cosa impensabile solo qualche decennio fa, ma che ora è stata resa possibile dalla tecnologia del nostro tempo e da quel fenomeno che è la globalizzazione.

Quest’ultima è un processo inarrestabile e irreversibile, che si è sviluppato su scala ultima, cioè planetaria, il cui significato è ampio, e include il libero scambio non solo di beni e servizi, ma anche dei fattori di produzione, della conoscenza, della cultura, delle regole. Non è comunque un fenomeno nuovo. Tuttavia, anche se non vi è accordo tra gli studiosi sulla sua origine, si può sostenere che la tendenza all’apertura dell’orizzonte umano verso il commercio, la cooperazione e l’integrazione si è sviluppata sin da tempi antichi, come ha pure evidenziato Friedrich A. von Hayek.

Lo stesso ha, infatti, rilevato che “il commercio è apparso molto presto… ed è più antico dell’agricoltura e di ogni altra forma di produzione regolare (…). Ottomila anni fa, Catal Húyúk in Anatolia, e Gerico in Palestina, erano diventati centri di commercio tra il Mar Nero e il Mar Rosso, persino prima che cominciasse il traffico di metalli e ceramiche”.

Secondo l’Iso Foresight Trend Report, per i prossimi anni la sharing economy dovrebbe crescere a un ritmo del 25 per cento. In fondo, è uno dei capitoli di una sorta di grande romanzo collettivo sull’innovazione che si sta scrivendo giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, e che può ancora riservare sorprese. La sua crescente importanza può essere spiegata da fattori istituzionali (liberalizzazione multilaterale dello scambio, integrazione economica) e da fattori tecnologici (ad esempio, lo sviluppo di Internet e delle tecniche telecomunicative).

L’economia della condivisione, come è stato sottolineato da più parti, allarga le possibilità di scelta del consumatore, offre servizi innovativi e differenti da quelli dei mercati tradizionali, permette di impiegare risorse che altrimenti sarebbero inutilizzate, abbatte i prezzi, consente l’accesso a determinati servizi da parte di consumatori che non fruiscono dei servizi tradizionali.
In una parola, risponde alle logiche del mercato, che è un segmento dell’intero processo sociale, nel quale è sovrano il consumatore. Esso, infatti, con le sue scelte determina l’oggetto della produzione nonché la qualità e la quantità della fornitura di beni e servizi e, in via finale, il successo o l’insuccesso di un imprenditore o di un qualunque altro attore. Egli stesso, in particolare, insegue l’obiettivo di massimizzazione del profitto, che può essere realizzato esclusivamente mediante il soddisfacimento dei consumatori e la produzione di un bene idoneo a soddisfarli.

Tutto ciò diventa rilevante per escludere che la sharing economy possa rivelarsi come un pericolo, al quale porre rimedio attraverso interventi restrittivi, di tipo legislativo o regolamentare, burocratico o fiscale, che oltre a porsi in contrasto con il sistema competitivo e a minare la base stessa della cooperazione sociale, peggiorano la situazione. Difatti, da un lato, questi interventi sottraggono risorse ai cittadini che, nell’immediato, potrebbero essere più utilmente impiegate sulla base delle indicazioni fornite dalla struttura dei prezzi (su cui è “leggibile” ciò che i consumatori più urgentemente richiedono); dall’altro, creano privilegi ingiusti e ingiustificati a favore di chi tali interventi ha promosso o sostenuto.
Inoltre, vietando le prospettate opportunità, finiscono pure per pregiudicare la crescita economica e penalizzare larghi strati della popolazione dall’acquisizione di beni e servizi sovente reinventati attraverso le tecnologie della rete in modi e tempi mai resi possibili prima. Sotto tale profilo, il modello di condivisione è la creazione di risorse economiche attraverso il rilascio e la messa a disposizione di beni privati ​​che prima rimanevano inattivi. Aggiungasi a ciò che il fenomeno, proprio per la sua portata innovativa, globale e planetaria, sta ponendo sfide inedite al sistema regolativo, e reso inapplicabili regole e strumenti tradizionali i quali, conseguentemente, diventano inadeguati verso nuove dinamiche sociali ed economiche e per innovazioni sociali e di mercato.

Alla luce di tutto quanto evidenziato è pertanto indiscutibile che sia necessario un approccio favorevole e propositivo verso l’economia della condivisione, la quale sviluppa modelli innovativi, consente il più proficuo impiego delle risorse e allarga enormemente le possibilità di scelta dei consumatori.

Così, ad esempio, nel settore dell’apprendimento, ove la stessa Wikipedia può essere definita una piattaforma di tipo collaborativo: gli utenti, infatti, non solo possono accedere a contenuti gratuiti ma proporre l’inserimento o la modifica di alcune voci. Avrebbe senso ostacolare o impedire Wikipedia? O Uber e Lyft (trasporti) oppure il sistema operativo Gnu/Linux (produzione collaborativa)?

Per il settore della ricettività turistica non ha poi ovviamente senso ostacolare o impedire piattaforme come Airbnb e le altre forme di accoglienza non imprenditoriali con i bed and breakfast o i semplici proprietari privati che affittano, le quali con le nuove piattaforme digitali sono cresciute in numero, accessibilità e trasparenza.
Tanto a partire da quel momento del 2007, a San Francisco, quando Brian Chesky e Joe Gebbia, due coinquilini appena laureati in difficoltà finanziarie, decisero di affittare alcuni posti letto nella loro casa durante il meeting dell’Industrial Designers Society of America. Un evento che aveva completamente riempito gli hotel della città californiana, che si è poi diffuso rapidamente.
Alle ragioni prima espresse, di principio e di tutela di una società aperta, basata sul mercato, si aggiungono quelle che emergono dall’esperienza. Consentire ‒ anche con l’aiuto e la spinta innovativa delle predette piattaforme digitali ‒ la libera realizzazione di tutte le forme di ricettività, vuol dire attivare una serie di dinamiche virtuose: sviluppo del turismo, anche in luoghi diversi da quelli tradizionali (spesso non interessanti o produttivi per investimenti di tipo alberghiero); valorizzazione delle città e dei borghi d’Italia, in cui sempre più immobili sono in stato di abbandono anche a causa della forte fiscalità, che sottrae risorse alla manutenzione; promozione dell’immenso patrimonio storico, artistico e culturale italiano. Fattori che, tutti insiemi, si traducono in una parola: crescita.  

Si può ottenere tutto ciò senza restrizioni, senza gabbie regolamentari e protezionismi, a beneficio di tutti: i miglioramenti e le innovazioni aboliscono le barriere, rendono più facile per gli individui agire in base alle proprie preferenze e di essere remunerati per i servizi che sono in grado di rendere al prossimo, riducono spesso drasticamente il prezzo del paternalismo e della violenza, segnando altresì il declino della politica e della legislazione e lo sviluppo di nuove istituzioni. Nel loro insieme determineranno in definitiva molte più trasformazioni di quanto la maggior parte delle persone si aspetti.


di Sandro Scoppa