venerdì 7 giugno 2024
Le leggi sul salario minimo non solo sono controproducenti,
ma peggiorano la situazione
È ancora aperto il dibattito sul salario minimo, per il quale (l’ennesima) direttiva Ue, approvata il 14 settembre 2022, basata sull’articolo 153, paragrafo 1, lettera b), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), secondo cui l’Unione sostiene e completa l’azione degli Stati membri nel settore delle condizioni di lavoro, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (articolo 5, paragrafi 3 e 4 Tue), obbliga i governi dei Paesi membri a garantire salari minimi adeguati, introducendo riforme in grado di adeguarli alla crescente inflazione e al costo della vita: tanto recependo entro il 14 settembre 2024 la medesima direttiva, la quale promuove in maniera differente l’iniziativa, offrendo cioè agli Stati la possibilità di fissare un salario minimo per legge ovvero affidarsi alla contrattazione collettiva. Tale dibattito è pure alimentato dalla richiesta dei partiti della sinistra e del Movimento 5 Stelle, i quali hanno raccolto le firme e depositato presso la Corte di Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per istituire in Italia un salario minimo legale di nove euro lordi l’ora. Ciò dopo aver presentato lo scorso anno in Parlamento un ddl unitario di identico contenuto, poi trasformato dalla maggioranza in una delega al Governo.
Le richiamate iniziative, pur se possono apparire accattivanti sotto l’aspetto politico e vieppiù propagandistico: sfortunatamente, la maggior parte dei politici si preoccupa più delle opportunità elettorali che di una sana politica economica, non risultano tuttavia ancorate ai dettati della teoria economica. Di conseguenza, la misura che dovesse rappresentare il risultato finale, laddove verranno trasformate in provvedimento legislativo, sarà inidonea a raggiungere gli obiettivi sperati e, perciò, destinata al fallimento.
In ipotesi, infatti, di introduzione coattiva del salario minimo, se a breve termine le conseguenze visibili saranno immediate e produrranno l’auspicato aumento dei salari, nel lungo periodo saranno invece disastrose e finiranno per penalizzare gli stessi lavoratori. In particolare, se il salario imposto sarà più alto rispetto a quello di mercato ‒ il cui indice è fissato in relazione alla “produttività marginale della manodopera” ‒ gli imprenditori si vedranno costretti a limitare o contrarre la forza lavoro. Potrebbero pertanto rinunciare alle produzioni non più remunerative, e quindi abbandonarle, oppure essere incentivati all’automazione e alla meccanizzazione, posto che appare razionale ed economico investire di più in macchinari per spendere meno in manodopera. Senza contare, che per adeguarsi al cambiamento, essi potrebbero persino ridurre le ore lavorate e la qualità delle condizioni di lavoro, accordando meno pause, eliminando servizi gratuiti, riducendo o tagliando i benefit, ecc.
Nei casi sopra considerati, il numero dei lavoratori occupati sarà comunque destinato a scendere. Viceversa, se detto salario minimo verrà stabilito a un livello più basso, saranno gli stessi prestatori a trasferirsi in altre aziende o in settori di produzione con retribuzione più alta, e anche in questo caso gli imprenditori saranno costretti a rinunciare a quella produzione per carenza di manodopera. Peraltro, è sempre in atto una tendenza continua dei lavoratori a spostarsi dal loro settore ad altre occupazioni similari, le cui condizioni sembrano offrire migliori opportunità, non solo economiche.
Vi è anche da considerare che il salario minimo rappresenta una barriera all’ingresso nel mondo del lavoro di prestatori con un livello minimo di istruzione, esperienza e competenze, ossia i meno qualificati, che tendono ad essere giovani, disoccupati di lunga durata e appartenenti a minoranze. L’aumento dei salari non solo ridurrà l’occupazione complessiva, ma sposterà i posti di lavoro verso lavoratori più qualificati che sono più produttivi e quindi garantiscono retribuzioni più elevate.
In sostanza, è ormai acquisito che tutti i costi del lavoro e la legislazione giuslavoristica rendono le assunzioni più costose. Pertanto, maggiore è lo stipendio (generalmente in lavori che richiedono una formazione specifica), maggiore è il costo del dipendente e minore è la possibilità che le persone meno esperte inizino una carriera. Per compensare i costi, le aziende assumeranno solo le persone più esperte e qualificate.
Aggiungasi ancora che, come in altre interferenze governative nelle transazioni volontarie tra un datore di lavoro e un dipendente, il salario minimo danneggerà la parte più debole della transazione. Quest’ultima riceverà una retribuzione più bassa (poiché l’azienda dovrà sostenere questi costi) e i consumatori alla fine pagheranno prezzi più alti. In sostanza, il costo di qualsiasi legge imposta o di una transazione volontaria è sempre pagato dalla parte più debole della transazione.
In definitiva, le iniziative richiamate in aperture omettono di considerare che i salari sono un fenomeno di mercato e che non esistono saggi salariali che non siano di mercato, come non esistono prezzi che non siano di mercato, il quale, ovviamente non tollera di essere manipolato con interventi distorsivi.
E, soprattutto, che una legge sul salario minino, come ha sottolineato l’economista americano Walter Block: “Non è (…) una legge sull’occupazione, ma una legge sulla disoccupazione. Non costringe un datore di lavoro ad assumere un dipendente al livello di salario minimo, o a qualunque altro livello. Costringe il datore di lavoro a non assumere un dipendente a certi livelli di salario, a quelli, cioè, sotto il minimo stabilito dalla legge. Coarta il lavoratore (…) a non accettare il lavoro. Obbliga il lavoratore, che si trova di fronte a una scelta tra un posto di lavoro a paga bassa e la disoccupazione, a scegliere la disoccupazione. Né serve, questa legge, ad aumentare i salari; si accontenta di escludere quei lavori che non seguono la regola”.
di Sandro Scoppa