martedì 6 febbraio 2024
Centoquaranta anni fa, il governo guidato da Agostino Depretis, mise la parola fine alla “tassa sul macinato”. Questa era stata voluta da Luigi Guglielmo Cambray-Digny, che riprese l’idea dell’ex ministro Ferrara e la fece inserire nel programma di governo, e da Quintino Sella, ed era stata introdotta a partire dal primo gennaio 1869, per far fronte alle impellenti necessità finanziarie del Regno d’Italia, essenzialmente per il grave deficit di bilancio determinato dalle ingenti spese occorse per la forzata unificazione e poi dalla guerra del 1866 con l’Austria. A tale imposta, chiamata anche “dazio sulla macina” e definita altresì “tassa della disperazione”, i governi avevano fatto ricorso largamente anche in precedenza, nel XVI, XVII e XVII secolo. La stessa aveva carattere di imposta indiretta e colpiva i mugnai, i quali dovevano versare all’erario un tributo direttamente proporzionale alla quantità di grano macinata. Anche se in passato, a volte, fu tramutata in imposta diretta, sia mettendo una tassa sui mulini sia esigendo una somma fissa per bocca, in luogo di un tanto per misura di grano macinato. Nel Granducato di Toscana, poi regno di Etruria, l’imposizione avveniva sulla base delle bocche da sfamare. La tassa sul macinato era dovuta anche sull’importazione di cereali dall’estero, nella forma di una sovrattassa del 20 per cento, che si sovrapponeva ai dazi doganali già normalmente applicati.
Il calcolo era semplice. Il mugnaio doveva pagare al fisco la tassa, che variava a seconda del tipo di cereale, in ragione dei giri della ruota macinatrice. La tariffa fissata fu piuttosto onerosa: il grano veniva a costare 2 lire al quintale, il granturco e la segala 1 lira, l’avena 1 lira e 20 centesimi.
Furono tassati addirittura i legumi secchi e le castagne, anche se in misura ridotta. Come ha plasticamente annotato Riccardo Bacchelli nel suo famoso romanzo Il mulino del Po: “Il mugnaio doveva pagare al fisco la tassa in ragione dei giri; ma a seconda della diversità tra mulino e mulino, anzi da macina a macina, il prodotto di un ugual numero di giri variava... si aggiunga che il mugnaio, tenuto a pagare la tassa in ragione dei giri, nel farsi rimborsare dal cliente... doveva e non poteva altrimenti che conteggiargli la tassa secondo il peso. E giri e peso non andavano mai d’accordo”. Per controllare le relative quote le autorità prefettizie fecero applicare ai mulini un contatore, costringendo così gli stessi mugnai a sottostare forzatamente all’imposizione legislativa.
La sua introduzione fa comunque preceduta da aspri dibattiti parlamentari, incentrati sull’opportunità o meno di ricorrere a un simile tributo, il quale, come fu pure rilevato e persino denunciato dai giornali dell’epoca, avrebbe finito per colpire le classi sociali a basso reddito e portato alla chiusura di molti mulini. Nel Paese dilagarono manifestazioni di protesta, che si svolsero in maniera tutt’altro che pacifica: dal Piemonte al Veneto al Friuli spesso degenerarono in scontri sanguinosi tra le forze dell’ordine e i contadini manifestanti. Secondo alcune stime, al termine delle agitazioni, che furono particolarmente furenti nella campagna padana, si contarono circa 250 morti e oltre mille feriti. Nonostante le proteste, i governanti si mostrarono irremovibili per oltre un decennio, e arrivarono persino a inasprire il suo carico. Soltanto con l’avvento al potere della sinistra di Agostino Depretis, che aveva duramente osteggiato il provvedimento, ribattezzandolo la “tassa progressiva della fame”, l’imposta, dopo una prima riduzione nel 1880, venne definitivamente abolita nel 1884. Al momento della sua abrogazione siffatta tassa produceva un gettito di 80 milioni di lire l'anno.
Come si evince chiaramente da quanto sopra riportato, si è trattato di una misura fiscale odiosa, avversata da più parti, che ha prodotto numerosi effetti regressivi sia sugli individui sia sui beni di largo consumo, producendone l’aumento del prezzo, sia sulle attività economiche, avendo determinato la chiusura di un numero rilevante di mulini e, di conseguenza, la perdita del posto di lavoro degli occupati. Una testimonianza si rinviene anche negli scritti di Giulio Alessio, che nel suo Saggio sul sistema tributario italiano e sui suoi effetti economici e sociali del 1883 annotava: “La tassa era assai più gravosa per le popolazioni rurali che per quelle urbane, sebbene si sia calcolato che essa sottraesse in media dieci giornate lavorative all'anno all'operaio delle città settentrionali”.
A sua volta, lo storico Alberto Maria Ghisalberti, nel suo L’Italia dal 1870 al 1915 (Fatti e figure) del 1950 ha scritto: “La tassa sulla macinazione dei cereali, approvata nel 1868, era apparsa, soprattutto, come una tassa che mirava a colpire il popolo, per il quale tassa sul macinato significò senz'altro tassa sulla fame. E ne nacquero incidenti, violenze e tumulti, ai quali il governo non seppe opporre che provvedimenti di polizia e azioni di forza”. Tali sue caratteristiche negative l’assimilano all’Imu (imposta municipale propria), la quale ha sempre suscitato e continua a suscitare altrettanta avversione. E tanto è anche confermato dai sondaggi, tra cui quello del 2013 di Voices from the blogs, l’Osservatorio Internet dell’Università Statale di Milano, effettuato a ridosso del Tax freedom day, che ha raccolto il 36,3 per cento dei commenti negativi e collocato detta imposta al primo posto tra quelle più odiare, sia da un o studio più recente di Kris Network of Business Ethics, che ha ancora certificato il suo primato come tassa più detestata dalle famiglie. Tutto ciò non solo perché si tratta pur sempre di un’imposta e, quindi, di un prelievo ottenuto con la forza e non attraverso lo scambio volontario, che tuttavia sollecita quel diffuso sentimento popolare d’intolleranza verso qualsiasi gabella, e pure per l’assurdità di un tributo su base patrimoniale in un ordinamento fiscale caratterizzato all'opposto dal principio della tassazione su base reddituale, ma anche per l’ingiustizia di un’imposizione tributaria che non è correlata, come invece avrebbe dovuto, a mente delle affermazioni dei suoi promotori, ai servizi.
L’ostilità, comunque, è dovuta soprattutto agli effetti negativi che ha prodotto, e continua a produrre, sul patrimonio immobiliare, contribuendo alla perdita di valore degli immobili nonché alla rarefazione dell’offerta di beni locazione, peraltro a fronte di un accresciuta domanda di affitto, in particolar modo in un periodo come quello attuale, che registra una diminuzione della domanda di acquisto e delle compravendite per effetto dell’aumento dei tassi di interesse dei mutui bancari e dalle restrizioni per la concessione degli stessi.
È opportuno ricordare che, come risulta dai dati diffusi da Confedilizia, il gettito annuale dell’Imu si è attestato a circa 22 miliardi di euro e ha raggiunto dal 2012, anno della sua istituzione con la manovra Monti, a oggi, la ragguardevole cifra di oltre 270 miliardi di euro (se fosse rimasta l’Ici, nello stesso periodo di tempo non si sarebbero superati i 110 miliardi). Confedilizia, inoltre, ha segnalato che l’Imu è dovuta finanche per gli immobili inagibili e inabitabili, sia pure con base imponibile ridotta alla metà. Tra il 2011 e il 2021 (ultimi dati disponibili), gli immobili ridotti alla condizione di ruderi sono più che raddoppiati, passando da 278.121 a 594.094 (+ 113,61 per cento). Si tratta di immobili appartenenti per il 90 per cento a persone fisiche, che raggiungono condizioni di fatiscenza per il semplice trascorrere del tempo o, addirittura, per effetto di atti concreti dei proprietari finalizzati ad evitare almeno il pagamento dell’Imu.
L’auspicio è che sia presto eliminata completamente, prima che finisca con il produrre gli stessi effetti devastanti causati dalla “tassa sul macinato”, della quale, come detto, condivide la nefasta considerazione.
di Sandro Scoppa