mercoledì 15 novembre 2023
A ottobre, con il cosiddetto Decreto Anticipi (Decreto legge numero 145 del 18/10/2023 a oggi in fase di conversione), il Governo ha deliberato, tra l’altro, la proroga del versamento del secondo acconto in scadenza a fine novembre. Tale differimento, però, non riguarda tutti i contribuenti indistintamente ma solo una parte, piccola, di loro. Diciamo fin d’ora che non è prevista alcuna riduzione del quantum da corrispondere ma solo un differimento con possibilità di pagamento rateale. L’Agenzia delle entrate, tramite la Circolare 31/E del 9 novembre 2023, ha fornito importanti chiarimenti. Ripercorriamo in questo breve contributo cosa contempla la citata normativa, quali contribuenti abbraccia e con che modalità, unendo le delucidazioni desumibili fornite dall’Agenzia delle entrate.
L’articolo 4 del Decreto Anticipi introduce sostanzialmente due novità, limitandole al solo periodo d’imposta 2023:
1) La proroga dal 30 novembre 2023 al 16 gennaio 2024 per il versamento del secondo acconto derivante dal modello Redditi PF 2023 escludendo espressamente, però, i contributi previdenziali il cui termine resta pertanto fermo al 30/11/2023;
2) La possibilità, in luogo del versamento in un’unica soluzione entro il 16 gennaio 2024, di suddividere l’importo in un massimo di cinque rate mensili di pari importo (a partire dal 16/01/2024). Sulla rate successive alla prima sono ovviamente dovuti gli interessi legali.
Possono beneficiare della proroga i contribuenti persone fisiche, titolari di partita Iva (ditte individuali e lavoratori autonomi) con un ammontare dei ricavi dichiarati per l’anno d’imposta 2022 non superiore a 170mila euro. Rispettato il requisito del fatturato, rientra nella proroga anche l’imprenditore titolare di impresa familiare o dell’azienda coniugale non gestita in forma societaria. Sul tema una precisazione è d’obbligo: solo l’imprenditore titolare può beneficiare della proroga al contrario dei collaboratori familiari e del coniuge (salvo che non siano a loro volta titolari di partita Iva). Non beneficiano del differimento, oltre le partita Iva con ricavi superiori ai 170mila euro ed i soggetti diversi dalle persone fisiche, le persone fisiche non titolari di partita quali ad esempio i soci di società di persone o di società di capitale che applicano il principio di trasparenza fiscale (tassazione in capo al socio anziché alla società). L’Agenzia fornisce infine delucidazioni sul calcolo del limite di fatturato stabilendo: nel caso di contribuenti che svolgono attività differenti contraddistinte da diversi codici Ateco, il fatturato è da considerarsi quale somma algebrica delle varie attività. Stesso discorso dicasi per le persone fisiche che svolgono contemporaneamente attività d’impresa e di lavoro autonomo. Per le persone fisiche che esercitano attività agricole o agricole connesse, la possibilità del differimento si acquisisce soltanto li dove siano titolari di reddito d’impresa ed il limite è calcolato sul volume d’affari (rigo Ve50 del modello Iva 2023). Qualora il contribuente in questione non sia tenuto alla presentazione della dichiarazione Iva, rileva l’ammontare complessivo del fatturato conseguito nel 2022 tenendo conto non solo le operazioni certificate tramite fattura, ma anche quelle certificate tramite corrispettivi.
Concludendo, secondo il modesto parere di chi scrive, alla lettura di una norma che produce effetti così sterili, la domanda da porsi è quale sia il senso. Di fatto il differimento deciso dal legislatore, oltre ad avere una portata limitata sia per soggetti coinvolti che per tributi (Irpef si, contributi previdenziali no), crea un’enorme difficoltà tanto per i contribuenti che per i consulenti che li assistono. Questi ultimi, infatti, dovranno in un arco di tempo ristretto ricalcolare gli acconti, considerando anche l’introduzione della cosiddetta flat tax incrementale, escludere la parte previdenziale, pattuire un eventuale piano di dilazione e predisporre nuovamente i modelli F24.
Ben venga una diluizione nel tempo delle imposte ed una riscrittura del calendario fiscale, ma il problema universalmente sentito ed avvertito in tema di acconti d’imposta riguarda principalmente l’ammontare e non tanto le tempistiche di versamento. Ricordiamo, a ragion di cronaca, che gli acconti d’imposta sono pari al 100 per cento dell’imposta dovuta nell’anno. Pertanto, per fare un esempio, un contribuente che nella sua prima dichiarazione dei redditi ha un reddito di 100mila euro, pagherà circa 36mila euro di Irpef a titolo di saldo ed altri 36mila euro a titolo di acconto (da aggiungere poi le addizionali ed i contributi previdenziali). Un’ingiustizia che prescinde dalle tempistiche più o meno larghe per il suo pagamento.
di Marco Salvati e Mariano Totaro