Il debito pubblico e la mela dell’Esselunga

lunedì 2 ottobre 2023


Il problema centrale del Paese riguarda come avviare un’azione di risanamento a partire dal debito senza produrre una manovra recessiva, ma una parte significativa dei media e della politica è presa dalla pesca della pubblicità dell’Esselunga che, con una distorsione evidente delle priorità dei problemi, ci mostra l’incapacità della politica e dei media di stare sul pezzo e di perdersi di fronte al nulla in modo assolutamente deprecabile. Il debito è il vero problema. Un debito che si è cumulato nei decenni a partire dagli anni Ottanta, quando la rivoluzione finanziaria avviata nel 1971 con la fine del “Gold Exchange Standard” ha separato la stampa della carta moneta da un correlato valore reale ancorato all’oro. Siamo così entrati nel mondo infinito e fuori controllo della finanza speculativa. È utile ricordare la dinamica del debito pubblico che ebbe il primo scatto nella crescita passando dai 41mila miliardi di lire del 1975 ai 232mila miliardi di lire del 1983 con un rapporto debito-Pil del 69 per cento. La dinamica monetaria contribuiva a fare crescere il debito per una politica finanziaria legata al crescente valore del dollaro che contribuiva a tale crescita: era cominciata la guerra finanziaria che avrebbe avuto negli anni Novanta e nel nuovo secolo il suo apogeo. L’aumento del debito dovuto alla speculazione finanziaria e all’inflazione importata dal petrodollaro e del sistema Swift è prossimo al 40 per cento del totale, noi abbiamo subito senza fare nulla.

La stampa della carta moneta senza limiti non ha più avuto resistenze dopo la caduta del muro di Berlino, aprendo l’era della finanza come arma di destabilizzazione dei Paesi riottosi alle regole definite da un’oligarchia finanziaria che risponde solo a sé stessa, incurante dei danni creati ai Paesi. Gli anni Settanta e Ottanta sono stati caratterizzati anche da un aumento della spesa pubblica – funzionale a ridurre gli scontri sociali degli anni di piombo – le politiche salariali e gli scontri sindacali, le spese sociali come le pensioni baby, l’uso della spesa corrente per avere consenso politico, la spesa, spesso inutile, per le aziende di Stato e in particolare per gli interessi crescenti sul debito. Nel 1981 abbiamo la separazione tra Banca d’Italia e il Tesoro così viene meno la copertura della Banca d’Italia per acquistare i titoli di Stato non collocati nelle aste, anche questo aumenta la spesa per interessi.

L’aumento della spesa pubblica alla fine degli anni Ottanta raggiunge nel 1993 i 959.714 miliardi di lire. Quegli anni dopo la caduta del muro di Berlino lanciano la finanza razionale, e noi ne subiamo le conseguenze con l’attacco di Soros alla lira e alla sterlina, con l’Italia rischia di uscire dallo Sme. La Banca d’Italia quasi si svena per mitigare gli effetti dell’attacco ma nel 1994 il debito pubblico raggiunge il 124 per cento del Pil. Siamo alla frutta. Per mantenere l’Italia nello Sme il governo Amato fa il prelievo notturno sui conti correnti degli italiani e sul panfilo Britannia si svolge la svendita delle aziende di Stato; il governo indebolito si consegna al sistema finanziario globale e nel nuovo secolo ne subiremo passivamente gli effetti sul debito e sugli equilibri finanziari. Siamo entrati nell’era della finanza e non siamo più in grado di controllare gli attacchi al Paese, e la dinamica del debito pubblico rimane sotto controllo solo per la spesa interna. Sempre di più la crescita del debito è da legare alla speculazione finanziaria sui titoli di Stato e il debito aumenta per la spesa corrente e per l’incursione della finanza, che contribuisce per oltre il 30 per cento all’aumento del debito. Il nuovo secolo vede l’avvio dell’euro in cui entriamo grazie al fatto che l’indicatore debito-Pil, su cui eravamo fuori standard, rimane fuori dalla decisione di avvio della moneta unica; siamo sorvegliati speciali e il nostro debito è fonte di discussioni.

La politica progressivamente perde la relazione con il mondo reale e vive di consenso generato dal continuo aumento della spesa corrente che fa aumentare il debito per spese troppo spesso improduttive, mentre crollano gli investimenti. Il primo decennio si caratterizza per le guerre in Medio Oriente a cui diamo appoggio, ma l’idea di una governance globale illude gli Stati Uniti che creano la bolla di Lehman Brothers nel 2008. Fino a quel momento il debito-Pil è stato relativamente stabile con un rapporto del 112 per cento. Dopo Lehman il debito per effetto della finanza dal 2001 al 2009 passa da 1.360.285 miliardi di euro a 1.770.230. Noi non possiamo fare niente sulla dinamica finanziaria ma una politica debole e sottostante non è in grado di arginare la corsa sulla spesa corrente e sul crescente divario tra nord e sud a cui vanno in misura crescente i trasferimenti erariali, per coprire la disoccupazione e favorire i clientelismi.

Infine, nel 2011 l’attacco all’Italia nel corso della campagna d’Europa fa schizzare lo spread e gli interessi sul debito che arriva a 1.990.130 nel 2012 con il rapporto debito-Pil al 123 per cento. In soli 5 anni dal 2011 al 2013 il debito cresce di 500 miliardi, nonostante l’apparente azione di risanamento dell’ennesimo governo tecnico che come i precedenti sembra peggiorare e non risanare il debito. Con l’Imu aumenta il costo degli immobili e frena la crescita del Pil. Siamo ostaggio della finanza internazionale e prigionieri di una politica ottusa e cieca che riesce solo a peggiorare i problemi, incapace di controllare la spesa per la mancanza di adeguati strumenti di controllo che sono solo tarati sui tetti di spesa e non sui risultati come dovrebbe essere e sulle singole aree di responsabilità. Abbiamo distribuito ricchezza che non avevamo prodotto e questo ha creato aspettative, modelli di vita e di consumo non sostenibili e abbiamo caricato sulle spalle delle generazioni future l’onere di restituzione del debito e il rischio di interessi non controllabili, in questo senso il debito pubblico è anche un debito morale.

La mazzata del Covid ha finito per farci entrare in un complicato tunnel con debito di due milioni 762mila miliardi di euro e un debito sul Pil del 145 per cento, che ci mettono in una situazione di tensione finanziaria controllabile solo in parte in un sistema occidentale che barcolla e in un sistema europeo che non fa nulla per frenare la finanza speculativa, dimostrandosi succube e inadatto alla governance dell’Unione che si chiama monetaria ma gestita dall’estero. Sarebbe utile un’agenzia di rating europeo per contrastare le uniche tre presenti che gridano le danze (sono solo americane), nessuno solleva il macroscopico problema. Una parte del debito, per il 28 per cento, è in mano alla Bce e questo riduce la pressione ma è evidente che il debito anche per effetto di interessi crescenti sta aumentando più rapidamente del Pil e rischia di metterci in un “cul de sac”. Rischiamo un effetto Ponzi se non riusciamo a ridurre la distanza tra debito e pil e non possiamo continuare a finanziarci solo con moneta di nuova creazione come stanno facendo gli Usa. La debolezza del Paese è simile a quella degli altri Paesi occidentali, non siamo soli nell’inferno della finanza fuori controllo. La situazione se si deteriora ancora può contenere o rendere meno appetibile l’acquisto di buoni del Tesoro che si vedrebbe costretto a ricomperarli ma così entreremmo in una pericolosa spirale.

Infine, un’ulteriore aumento del debito avviene con l’inflazione dalla guerra in Ucraina, che alimenta i prezzi dei fattori produttivi energetici. La Bce non riesce a capire la spirale in cui ci infila aumentando i tassi di interesse, imitando la differente situazione degli Usa che hanno un’inflazione da aumento della domanda per la troppa carta moneta stampata senza limiti. I tassi di interesse aumentano i costi di produzione e i prezzi di vendita, e di conseguenza l’inflazione che contribuisce a contenere e diminuire il Pil come vediamo dalle stime proposte. Naturalmente, i tassi di interesse cresciuti aumentano il debito pubblico. La manovra nella Ue che produce manifattura era di calmierare i prezzi di vendita con un accordo nazionale con le imprese di produzione. Il debito aumenta a 2.800 miliardi e diventa il vero problema.

Christine Lagarde conferma la sua dipendenza culturale dalla Fed che copia malamente e finisce per fare gli stessi errori di Jean-Claude Trichet nel 2008, che allora presidente della Banca centrale europea, aumentò i tassi d’interesse al 4,25 per cento, il massimo da sei anni. Il rialzo fu motivato con l’aumento dell’inflazione, che nell’Eurozona aveva raggiunto il 4 per cento trainata soprattutto dall’energia. “L’inflazione è preoccupante” spiegò il banchiere francese “mentre le prospettive economiche sono solide e i fondamentali buoni”. Nell’immediato ne derivò un divario nel costo del denaro del 2,25 per cento tra Europa e Usa visto che la Federal Reserve aveva lasciato i tassi immutati. La Lagarde senza memoria ha fatto lo stesso errore, andrebbe censurata.

A questo punto, le cicale della mala sorte parlano stoltamente di governo tecnico che non può cambiare nulla ma solo peggiorare la situazione, viene ricordato la storia del 2011 con uno spread impazzito dalle manovre speculative. Ma oggi è diverso, e lo squilibrio della finanza occidentale fa presumere che oltre a qualche fiammata lo spread non sarà un elemento di destabilizzazione perché potrebbe fare saltare gli equilibri globali dell’occidente in cui un America sotto il peso del debito accumulato riesce solo a rinviare lo shutdown di qualche mese. Come direbbero i latini : “Quod differtur non aufertur”; è solo una questione di tempo e un attacco all’Italia potrebbe essere l’elemento che fa saltare il sistema. Siamo in una situazione straordinaria che richiede provvedimenti straordinari, per i quali si rende necessario uno spirito creativo e strumenti nuovi per non cadere nel caos. Le soluzioni sono legate alla competenza e professionalità della classe dirigente che fino ad oggi non ha risposto alle esigenze, alla presa di coscienza collettiva, alla capacità di creare bene comune per affrontare con solidarietà le sfide della storia, evitando di cadere nella trappola mortale di pretese ideologiche e facili – come la patrimoniale e l’inutile governo tecnico – prima di avere messo a posto i sistemi di accountability in modo che ognuno risponda, in modo trasparente, delle sue responsabilità. Cosa che oggi è ancora lontana dall’avverarsi.

(*) Professore emerito dell’Università Luigi Bocconi


di Fabrizio Pezzani (*)