L’equo compenso contro la “capitis deminutio” dell’avvocatura

mercoledì 24 maggio 2023


L’articolo 36, al primo comma, della Costituzione italiana stabilisce che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Inoltre, la V sezione del Consiglio di Stato ha affermato nella sentenza n. 2084 del 28 febbraio del 2023, che la legge sull’equo compenso ha “colmato quello scarto negativo che, nel tempo e a causa di svariati fattori, ha provocato nel settore delle libere professioni una deminutio di tutela”.

In riferimento a questi principi è stata varata dal Governo Meloni la legge n. 49 del 21 aprile del 2023, la quale è stata una dei primi provvedimenti presi dall’attuale legislatura, che il Parlamento ha approvato in pochi mesi, a riprova del fatto che sia i partiti della maggioranza che quelli dell’opposizione fossero d’accordo sulla sua legiferazione, in modo trasversale.

La suddetta trasversalità parlamentare sorge dall’esigenza di dare risposte veloci a problemi concreti, come quello di risolvere l’inversione dei rapporti di forza negoziale tra i liberi professionisti e le medie e grandi imprese, affinché venga riconosciuta fattivamente quella legittima dignità professionale ed economica di cui i liberi professionisti e coloro che difendono il diritto come gli avvocati, sono costituzionalmente meritevoli.

Infatti, a causa delle politiche di pseudo liberalizzazione, attuate alla fine degli anni Novanta, dal ministro dell’Industria, del commercio  e dell’artigianato dell’epoca, ossia Luigi Bersani, poi progressivamente inasprite dai governi successivi, fino a raggiungere l’apice dell’illegittimità costituzionale con il Governo Monti, non avevano fatto altro che favorire le grandi imprese, nonché le multinazionali, ad imporre ai professionisti dei compensi inverecondi, a causa della loro entità irrisoria, tanto da ledere il succitato articolo 36 della Carta costituzionale.

Questi compensi erano e tuttora rimangono inappropriati proprio perché non corrispondono alla complessità e alla qualità della prestazione intellettuale esercitata dal professionista, determinando da un lato un danno economico e di immagine allo stesso e dall’altro lato penalizzando notevolmente il cliente, nonché consumatore finale.

Quindi, rebus sic stantibus, vengono svolte delle prestazioni professionali in cui si manifesta una “selezione avversa”, in quanto molti professionisti si ritrovano nelle condizioni di offrire dei servizi di bassa qualità, di cui rimangono vittime i clienti, attratti più dalla economicità che dalla competenza offerta.

A conferma di quanto esposto, la stessa Corte di Giustizia, nella storica sentenza “Cipolla” del 2006, pur affermando che le tariffe minime impediscono ai professionisti di altri Stati membri di concorrere, sul prezzo della loro prestazione professionale, con i professionisti già stabiliti in Italia – i quali sarebbero avvantaggiati nel creare e fidelizzare una clientela – ha comunque tenuto conto della legittimità delle tariffe minime qualora esse fossero funzionali a tutelare la qualità dei servizi prestati ai consumatori e di conseguenza, a garantire l’efficienza dell’amministrazione della giustizia.

Tant’è che, la Direttiva 123/2006 “Servizi” Ce del Parlamento europeo, ha previsto delle tariffe obbligatorie minime e/o massime anche per il libero professionista, nonché per l’avvocato, purché esse non si rivelino incompatibili con essa e non siano assolutamente discriminatorie e sproporzionate rispetto, ovviamente, ai motivi imperativi di interesse generale. Quindi, anche la Corte di Giustizia riconosce che le tariffe minime rappresentano uno strumento legittimo e funzionale a garantire la tutela del consumatore.

Per quanto la legge sull’equo compenso rappresenti un primo passo verso un miglioramento della tutela e del rispetto riguardo al ruolo sociale ricoperto dal libero professionista in generale e dell’avvocato in particolare, ciò non esula dal pensare che urge il bisogno che nasca un forte sindacato dei professionisti e nello specifico degli avvocati, allo scopo di tutelarne il ruolo a livello legislativo e allo stesso tempo garantire la loro rappresentanza nelle sedi istituzionali, affinché l’avvocato sia consultato e considerato, per la sua competenza in materia, quando si studiano progetti di legge riguardanti la giustizia e la libera professione, con la stessa modalità inclusiva e con la ossequiosa considerazione che vengono riservate ai magistrati.


di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno