Piccolo è ancora bello

giovedì 11 maggio 2023


Nel 1973 uscì una raccolta di saggi dal titolo “Small is beautiful” di Ernst Friedrich Schumacher che acquistò immediata fama e per un lungo tempo le sue indicazioni furono seguite in economia. Il lavoro dava evidenza al ruolo delle imprese minori – o anche delle piccole e medie imprese – nel sistema economico rispetto a quello delle grandi imprese. Il contesto socio-economico fu di particolare rilevanza per dare alle realtà minori una rilevante importanza imprenditoriale, soprattutto in anni dove l’intero sistema economico-monetario stava cambiando, creando improvvisamente un dinamica quasi ingestibile dalle imprese, specie quelle maggiori.

Fino al 1971 vi era stata una stabilità assoluta nel mondo economico e negli scambi monetari grazie agli accordi di Bretton Woods del 1945 che avevano dato certezza e stabilità al sistema dei cambi; le grandi imprese formulavano piani e strategia a vent’anni, fino al 1991, convinti dell’immodificabilità delle variabili del sistema. Quando nel 1971 Richard Nixon dichiarò la fine del Gold exchange standard si venne a creare una tempesta monetaria acuita dalla generata crisi energetica del petrodollaro. Tutto si muoveva molto velocemente, appesantendo le grandi imprese condannate a fare l’elefante nel giardino. Così, in quegli anni il piccolo diventò bello per la sua maggiore adattabilità a un mondo in un continuo e imprevedibile movimento. In Italia, patria del piccolo e bello, il dramma delle grandi imprese rappresentò una spinta al loro sviluppo e alla loro crescita, favorita anche dalla svalutazione della Lira a causa degli effetti inflattivi generati dalla tempesta monetaria che, abbattendo i costi per l’export, ci fece diventare i primi cinesi d’Europa. L’evidenza emerge dai grafici fra crescita del Sud che si avvicina al Nord fino al 1971, per poi staccarsi nuovamente dopo. Le piccole e medie imprese del Nord avevano ripreso a correre, ma le cattedrali nel deserto al Sud soffrivano di immobilità. Le grandi imprese, poco alla volta, riuscirono a sciogliere i tanti nodi che le immobilizzavano e presero un crescente potere, anche grazie alla finanza più propensa a cavalcare le grandi imprese che non le piccole.

Oggi, a distanza di cinquant’anni da quel periodo di cambiamenti rapidi ed imprevedibili, sembra che si sia tornati ancora una volta al “piccolo è bello”, perché le circostanze in cui oggi si opera sono tornate imprevedibili nelle grandi imprese, specie in quelle che sembravano più innovative quelle della Silicon Valley (Amazon, Google, Apple, Facebook, Twitter). I licenziamenti si susseguono a migliaia ogni singolo giorno, accompagnati dalla brusca caduta dei relativi corsi azionari che riportano l’euforia finanziaria alla realtà. Il sistema finanziario che le ha accompagnate sta saltando, così le banche della Silicon Valley sono al default.

Ritornare alle piccole e medie imprese italiane è una realtà. Esse rappresentano un unico non ripetibile in altri Paesi e nel mondo globale, perché sono figlie della nostra storia fatta di artigianato, individualismo creativo e sensibilità sociale. Il tessuto socio-economico composto da queste imprese rappresenta la spina dorsale del Paese. I numeri che le rappresentano sono di assoluto riguardo, a dimostrazione del loro ruolo e della loro importanza nel traghettare il Paese in questo indescrivibile caos. Le classificazioni – piccole, medie, micro – cambiano a seconda del range numerico scelto per collocarle, ma si mantiene un parallelo pur nelle diversità dei range. Le piccole e medie imprese rappresentano il 92 per cento delle imprese attive, con l’82 per cento degli occupati totali. Il fatturato di oltre 2400 miliardi pari al 41 per cento del Pil dello Stato e il 48 per cento dell’export rappresentano un terzo degli investimenti. Tra esse vi sono aziende ad alta innovazione e, nel complesso, dal 2010 al 2019 sono cresciute del 6,5 per cento, di gran lunga superiore alla media Ue, mostrando una maggiore produttività.

La realtà del Paese è fatta da una storia scritta dagli artigiani e dalle imprese famigliari che rimangono tali, anche di fronte a crescite dimensionali. Si forma un legame profondo quasi inscindibile tra impresa e proprietà, che non esiste in altre parti come negli Usa, in cui un’impresa può sempre essere ceduta di fonte a un prezzo vantaggioso. Esiste nel nostro Paese un sistema duale tra grandi e minori imprese che convivono tra di loro, anche tramite forme di competizione collaborativa che fa crescere entrambe. Per questo risulta abbastanza sterile il dibattito sul piccolo che non diventa grande rispetto alla storia che ha premiato il nostro duale sviluppo industriale, collocando il Paese – in gran parte privo di materie prime ma non di cervello e creatività – tra quelli a più alta industrializzazione in mezzo a giganti che guardano a noi sempre con rispetto.

Il Governo che deve affrontare la difficile storia del nostro tempo e un suo rilancio non può prescindere dalla sua storia e dalla consapevolezza che la flessibilità del Paese, in condizioni avverse, si gioca anche sull’elasticità adattiva delle piccole e medie imprese, che consentono al sistema un adeguamento meno traumatico rispetto alle grandi imprese, il cui fallimento porta a disastri sociali. Mentre le piccole imprese non falliscono tutte nello stesso tempo ma in modi e tempi diversi, consentendo al sistema di modificarsi con minori traumi sociali. Speriamo che nella manovra finanziaria non ci sia una colpevole mancanza di attenzione al ruolo delle imprese minori e alla loro capacità di generare posti di lavoro di cui non possiamo fare a meno.

(*) Professore emerito – Università Bocconi


di Fabrizio Pezzani (*)