Tax free day: costo del lavoro e retribuzione netta

martedì 2 maggio 2023


Il Centro studi della Cgia di Mestre ha calcolato al 9 luglio, per l’esercizio 2022, il giorno in cui la piccola impresa si libera dal peso fiscale della bestia affamata che è lo Stato italiano. È stato rilevato dal Centro studi un miglioramento di un mese rispetto al 2021 che era stato calcolato al 9 di agosto. Nel 2022 la piccola impresa italiana ha dovuto lavorare 190 giorni per l’Erario e 175 giorni per se stessa. La media “di Trilussa” ha fissato il carico fiscale per il 2022 al 43,5 per cento del Pil. Non è né accettabile né economicamente sostenibile che una azienda, magari a conduzione familiare, debba lavorare per la maggior parte dell’anno per sostenere una Pubblica amministrazione che drena tanta ricchezza privata, sprecandola, per sostenere chi non ha voglia di lavorare e che fornisce servizi pubblici non proprio compatibili con un grande Paese che fa parte del G7. L’Istat ha rilevato una crescita del Pil dello 0,5 per cento congiunturale nel primo trimestre del 2023 e una potenziale crescita su base annua del 1,8 per cento. Risultato tendenziale decisamente migliore rispetto alle previsioni del Def che prevede una crescita dello 0,9 per cento. In sostanza, la crescita del Pil già acquisita per il 2023 è dello 0,8 per cento.

È una buona notizia che potrà spegnere le Cassandre delle agenzie di rating internazionali che fanno da sponda per la speculazione finanziaria contro il nostro debito sovrano. La “Triplice” sindacale da sempre politicizzata, capitanata dalla rossa Cgil, ha tacciato di inopportunità la convocazione del Consiglio dei ministri il giorno della “Festa dei lavoratori”. Giorgia Meloni, alle gratuite critiche di Maurizio Landini ha risposto che sarebbe stato opportuno “rinviare il concertone del Primo maggio”. Le organizzazioni sindacali confederali non si rendono conto di operare in un mercato del lavoro totalmente cambiato. Continuano a tutelare i dipendenti delle grandi imprese e i pensionati, già super garantiti, senza comprendere che il mondo del lavoro è in continuo e inarrestabile cambiamento. Sono diventati i sindacati degli assistiti e del Reddito di cittadinanza. Contestano al governo che con il Decreto Lavoro si allarghi la precarietà, come se le imprese “cattive” volessero dipendenti precari piuttosto che lavoratori specializzati.

Il paradosso è che le aziende sono alla continua ricerca di risorse da assumere a tempo indeterminato e non trovano lavoratori qualificati. Un’impresa ben gestita sa che le risorse umane sono il fattore produttivo fondamentale per l’azienda. Il taglio del cosiddetto cuneo contributivo consentirà ai lavoratori di avere uno stipendio più alto rispetto al lordo calcolato nel cedolino paga. Se si riducessero gli sprechi e le provvidenze pubbliche per pochi, si potrebbe ridurre la pressione fiscale sui lavoratori, così da mantenere inalterato il costo del lavoro per le imprese e le buste paga sarebbero più ricche. Il salario basso è dovuto alla eccessiva fiscalità. Le imprese per poter operare sul mercato devono realizzare prodotti di qualità a prezzi competitivi. Il salario non è “una variabile indipendente”. Quella che i “sinistri” chiamano precarietà, in economia è definita flessibilità che è essenziale per l’impresa e per la sua stessa sopravvivenza. L’imprese, per garantire gli stipendi e i salari, devono avere un margine operativo in grado di remunerare tutti i fattori produttivi impiegati nell’azienda: il capitale investito, l’attività imprenditoriale, il lavoro e la Pubblica amministrazione. Lo Stato partecipa agli utili prodotti dalle imprese come un socio di maggioranza, ma non partecipa alle perdite attuando un vero e proprio “patto leonino”. L’aumento dei salari e degli stipendi sarà possibile quando si ridurrà la spesa pubblica improduttiva. Per distribuire ricchezza prima occorre produrla!  


di Antonio Giuseppe Di Natale