venerdì 30 dicembre 2022
Siamo in attesa dell’approvazione del nuovo Codice appalti da parte del Consiglio dei ministri e dobbiamo poi seguire lo strumento in Parlamento per raggiungere l’approvazione definitiva entro il 31 marzo del 2023. Siamo cioè di fronte a un calendario carico di scadenze non facili. Ho letto su alcuni comunicati stampa delle anticipazioni sia sul testo varato dal Consiglio di Stato, sia sulle rivisitazioni che ha già apportato il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini. Ho letto attentamente questo nuovo strumento e voglio ricordare che dal 2016 e dal 2017, cioè dai decreti legislativi 50/2016 e 56/2017, abbiamo assistito alla definizione di ben sette proposte e nel frattempo i Governi che si sono succeduti in questi sei anni hanno varato una serie di decreti legge mirati allo snellimento delle procedure; una consistente elencazione di provvedimenti che da un lato hanno cercato di superare le assurdità del Codice approvato con Decreto legislativo nel giugno del 2017 e dall’altro hanno invocato procedure che, in molti casi, hanno, addirittura, dato origine a forme di contenzioso non facili. Insomma non voglio fare un terrorismo mediatico o, peggio ancora, non voglio anticipare possibili fallimenti proprio nell’iter definitivo del nuovo Codice, voglio invece prospettare una possibile nuova ipotesi: “Ha senso invocare come strumento il Codice?”.
Cioè mi chiedo, da ingegnere e quindi da ignorante del tessuto giuridico amministrativo che caratterizza uno strumento come il Codice, se non sia preferibile, alla luce dei vari provvedimenti assunti negli ultimi sei anni, ricorrere ad un Testo unico sommatoria che contenga quei provvedimenti che rispondano ad un articolato elenco di condizioni, quali, solo a titolo di esempio:
1) Siano in grado di ridimensionare al massimo il numero delle stazioni appaltanti.
2) Contengano riferimenti procedurali chiari e coerenti alle direttive comunitarie.
3) Assegnino i lavori senza sospendere gli affidamenti in attesa della conclusione dell’iter legale generato da impugnative da parte di altri partecipanti alla gara.
4) Definiscano, in modo chiaro, come superare i vincoli ostativi prodotti o dal Ministero della Transizione ecologica o dal Ministero dei Beni Culturali.
5) Chiariscano in modo trasparente l’obbligo del ricorso a strumenti di progettazione innovativi come il Bim (Building Information Modeling).
6) Definiscano, in modo trasparente, il ricorso a logiche di copertura dei vari investimenti come il “canone di disponibilità”.
7) Definiscano misurabili automatismi sull’aggiornamento dei prezzi e sulle modalità di ricorso allo strumento della “revisione prezzi”.
8) Istituiscano un soggetto garante della evoluzione temporale degli impegni assunti nella fase di aggiudicazione delle opere; solo in tal modo sarà possibile sindacare sulla coerenza tra l’offerta in fase di gara e concreto costo della stessa al termine dell’intero ciclo realizzativo.
9) Rileggano, in modo organico le procedure di assegnazione dei lavori e le attività legate ai subappalti utilizzando in proposito le Direttive comunitarie.
Sono tutte proposte e condizioni che sicuramente potranno trovare un concreto riscontro procedurale non in un Codice ma in un misurabile elenco di condizioni più adatte ad un Regolamento. In fondo forse sarebbe utile rileggere attentamente le evoluzioni e le involuzioni che in passato hanno caratterizzato l’intero sistema dei lavori pubblici e cercare di recuperare anche dei riferimenti che penso siano molto più utili e più rispondenti alle reali esigenze del vasto ed articolato comparto delle costruzioni.
In verità, la prima legge sui lavori pubblici del 20 marzo 1865, si intitolava esattamente “Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia” (conteneva, infatti, tutto quanto fu ritenuto allora indispensabile per regolamentare il funzionamento del nascente Stato Italiano proclamato il 17 marzo del 1861), ma comprendeva, nel suo Allegato F, appunto, la “Legge sulle opere pubbliche”, che venne poi sostituita, dopo quasi 130 anni di ininterrotta vigenza, dalla legge 109 dell’11 febbraio1994 (meglio conosciuta come Legge Merloni), il cui titolo, altrettanto sintetico quanto inequivocabile, era “Legge quadro in materia di lavori pubblici”, poi abrogata e sostituita, 12 anni dopo, dal Decreto legislativo 163 del 12 aprile 2006, che ha inaugurato il nuovo corso didascalico del “codice dei contratti pubblici relativi a lavori”.
In ogni caso: codice degli appalti pubblici equivale a codice dei contratti pubblici che equivale a legge sui lavori pubblici. Ma, certamente, in particolare con riferimento all’attuale codice (Decreto legislativo 50/2016 e s. m. i.), la denominazione “Codice dei contratti pubblici” appare, per certi versi, riduttiva rispetto alla più ampia trattazione contenuta nel suo articolato, dove possiamo ritrovare regole e disposizioni per la programmazione, per la progettazione, per l’affidamento e per la gestione dei lavori pubblici oggetto dei contratti che, viceversa, potrebbero sembrare l’unico argomento di cui ci si occupa con il codice medesimo. Per gli addetti ai lavori, questa distinzione semantica dei termini utilizzati (Codice degli appalti, codice dei contratti, legge sui lavori pubblici) non genera alcuna confusione concettuale, dal momento che ogni contratto pubblico segue ad un affidamento, il quale consegue ad un progetto da realizzare, che, in quanto pubblico, è stato progettato in attuazione di una programmazione effettuata rispetto ad un finanziamento reso disponibile per lo scopo, e tenuto conto che non stiamo parlando certamente di appalti di lavori privati, per i quali valgono il Codice civile e il Testo unico sull’edilizia (Dpr 380/2001 e s. m. i.). Il tutto secondo le regole contenute nel codice medesimo. Quindi parlare di Codice dei contratti pubblici equivale, ad ogni effetto e senza dubbio alcuno, a parlare di appalti pubblici e di lavori pubblici, non essendo, peraltro, comprese nel codice le ulteriori regole afferenti i diversi filoni legislativi cui attenersi, in quanto comuni per tutti, quali quelli per:
1) la tutela dell’ambiente;
2) la salvaguardia del paesaggio e dei beni culturali;
3) la sicurezza;
4) l’uso del territorio;
5) le norme tecniche inderogabili.
Ed allora, concludo, sarebbe meglio forse redigere un Testo unico perché il nuovo Codice:
1) Non è un provvedimento snello e non c’è nulla di peggio di quando si vuole rendere snello un provvedimento che in partenza non era snello.
2) È un provvedimento carico di prosopopea perché redatto da soggetti di elevata cultura giuridico – amministrativa ma del tutto estranei al non facile comparto delle costruzioni.
3) È un provvedimento che regala più occasioni di contenzioso per chi tenta di partecipare ad una normale evidenza pubblica.
In realtà, insisto, bisogna avere il coraggio di non tentare di modificarlo, di non tentare di correggerlo ma di rivedere integralmente non il contenuto ma lo strumento, cioè occorre rivedere l’approccio metodologico. Lo so la mia è pura utopia ma spesso la utopia fa bene alla mente.
(*) Tratto da Le Stanze di Ercole
di Ercole Incalza (*)