Logistica e offerta infrastrutturale

martedì 15 novembre 2022


Ricordiamo che, anno dopo anno, il pianeta si caratterizza sempre più come un teatro in cui gli attori piò o meno sono sempre gli stessi. Invece, sono cambiati o stanno cambiando i riferimenti fisici su cui gli attori si muovono, su cui gli attori recitano. Questa continua e repentina evoluzione delle caratteristiche dei siti nel campo dei trasporti rappresenta una condizione non facile non solo per programmare e per prevedere il breve e medio periodo ma, soprattutto, per disegnare in anticipo le linee programmatiche più coerenti alle esigenze della domanda, più coerenti alle nuove linee tendenziali.

La legge istitutiva del Piano generale dei Trasporti contiene in modo lungimirante, all’articolo 2 (qui riportato), due riferimenti significativi. Il coinvolgimento nella redazione del Piano di più dicasteri (11) e di una rappresentatività rilevante delle Regioni (5); cioè è un atto programmatico che coinvolge più soggetti direttamente e indirettamente interessati, quindi viene prodotto collegialmente.

Viene concepito in modo sistematico l’aggiornamento perché si è convinti che il comparto dei trasporti è in continua evoluzione o involuzione. E gli strumenti di pianificazione non possono assolutamente essere statici. Nasce però una specifica peculiarità dello strumento pianificatorio relativo ai trasporti: un piano della sanità, un piano dell’energia, un piano della Pubblica amministrazione possono essere aggiornati. Un Piano generale dei Trasporti dopo tre anni potrebbe essere reinventato integralmente. Noi abbiamo alcuni esempi concreti: nel 2001 con la delibera del Cipe, numero 121, prendeva corpo una elencazione di opere che interpretava le volontà sempre del Piano generale dei Trasporti iniziale, ma recepiva anche i suoi aggiornamenti. Poi nel 2005 in occasione della definizione delle reti Ten-T c’è stato una ulteriore rilettura programmatica. Con la rivisitazione del documento delle Reti Ten del 2005 e infine nel 2020 abbiamo dato vita al Piano.

Ma quali sono i fattori esogeni che rendono forse insufficiente un aggiornamento. E impongono non la redazione di un nuovo Piano, ma richiedono inizialmente la ricerca di un nuovo modo di leggere e interpretare le esigenze dirette e indirette della mobilità delle persone e delle merci. E, solo dopo questo nuovo approccio, prospettano i nuovi scenari possibili e le nuove prospettazioni programmatiche. Per esempio, la pianificazione adottata nella definizione delle Reti Ten ha subito una evoluzione davvero interessante: è passata dalla logica dei Corridoi alla logica dei Nodi. Infatti, nell’edizione del 2011, dopo solo 6 anni dall’edizione del 2005, assumono grande ruolo e funzione le aree metropolitane e i nodi logistici. Diventano determinanti le interazioni tra i nodi e i corridoi.

Ma questo interessante approccio alla dimensione sovranazionale dell’offerta era strettamente legato al fatto che fino, al 2011, vivevamo in una piena funzionalità della Convenzione di Schengen e quindi eravamo sempre più convinti che ci saremmo avviati verso una vera libera circolazione delle persone e delle merci a tal punto che, sempre nella edizione delle Reti Ten, avevamo ipotizzato un Corridoio, il numero 5, che partiva da Lisbona e raggiungeva Kiev. Avevamo anche definito un Corridoio, il numero 8, che partiva da Napoli e raggiungeva Bari e Brindisi per proseguire verso Durazzo e terminare a Varna, nel Mar Nero. Temporaneamente, questo Corridoio fu rivisitato in quanto attraversava una nazione come l’Albania ancora esterna all’Unione europea ma, convinti che in pochi anni avremmo superato questo ostacolo, si decise di recuperare il tratto Napoli-Bari-Brindisi come antenna del Corridoio 1 (Berlino-Palermo, poi diventato Helsinki-La Valletta) verso l’Adriatico. Questa diffusa convinzione verso una organica e libera circolazione si è spenta con l’arrivo della pandemia del 2020 e, stranamente, a questo fenomeno ha fatto seguito un crollo delle varie forme di globalizzazione. Questi fattori esogeni hanno incrinato in modo sostanziale anche le logiche e le linee di produzione.

È entrato in crisi anche un progetto che sin dal 2008 la Cina, convinta di un teatro economico libero da consolidate logiche di “confine”, aveva tentato di disegnare, ricorrendo a un impianto programmatico davvero rivoluzionario, facendo leva sul progetto definito “La Via della Seta”. Per alcuni tale iniziativa era apparsa come una chiara azione espansionistica, come un vero controllo su scala mondiale di tutti i processi logistici. Tuttavia, furono sottoscritti accordi e creati appositi fondi finanziari. Lo scorso mese di febbraio il conflitto in Ucraina ha praticamente bloccato questo impianto programmatico.

Jennifer Hillman della Georgetown University ha spiegato: “Quella Via della Seta che Xi Jinping ha lanciato nove anni fa è praticamente bloccata; infatti lo spazio aereo lungo questo itinerario è interdetto, le navi container non possono accedere all’Ucraina e molti ormai si tengono alla larga della Russia; in proposito alcune delle principali compagnie marittime e giganti delle spedizioni come Maersk, Msc, Hapag-Lloyd, Ocean Network Express, Dhl hanno praticamente subito l’annullamento di tutte le prenotazioni per il trasporto merci da e per la Russia”.

Certamente, analizzando tutti gli itinerari della Belt & Road Initiative (la Via della Seta), scopriamo che nel territorio della Federazione russa e della Bielorussia passano molti dei corridoi ferroviari. Il Presidente della Epu di Shanghai ha precisato: “Tutti i nostri treni che passano attraverso la Ucraina possono essere dirottati su altre rotte ormai, visto che le spedizioni dirette si sono fermate”. È opportuno ricordare che dal 2011 alla fine di gennaio scorso 50 milatreni merci hanno già percorso questa rotta per un totale di 240 miliardi di dollari di valore di beni cinesi di tutti i tipi. Questo itinerario, o meglio questi itinerari, non annullano temporaneamente l’intera intuizione logistica che caratterizza la Via della Seta perché, sono sicuro, che la Cina abbia capito che l’itinerario terrestre non è e non sarà più percorribile. Non lo sarà più perché, anche se i rapporti tra la Russia e la Cina non si incrineranno a valle di questa invasione della Ucraina da parte della Russia, tuttavia una quantità di merci di un valore così elevato non potrà più transitare attraverso realtà territoriali con elevato rischio bellico.

E allora dovrebbe tornare la portualità mediterranea. Riecco, in realtà, Hub portuali chiave come Algeciras, Valencia, Fos, Genova, Livorno, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Pireo. Riferimenti importanti soprattutto nelle relazioni tra l’area asiatica e quella europea. Appare evidente che tra questi Hub ne compare solo uno nel Mezzogiorno del Paese e non appaiono, invece, gli impianti portuali di Cagliari, di Augusta e di Taranto. Cioè, cominciamo a capire, a valle di questo grave e imprevedibile evento bellico, quanto era interessante per il nostro Mezzogiorno il progetto Belt & Road Initiative e quanto un Paese lontano dal nostro Meridione, come l’Ucraina, condizionasse l’evoluzione dell’intero Mezzogiorno.

Un teatro, quello del Mediterraneo, che ritorna a essere il riferimento portante della logistica tra economia europea e quella asiatica. Molti, giustamente, si chiederanno perché le altre realtà portuali come Cagliari, Taranto e Augusta non siano incluse in questa nuova offerta logistica. La prima risposta è banale: non c’è stata adeguata forza gestionale e, soprattutto, un adeguato supporto alle rispettive autonomie delle autorità portuali in modo da creare le condizioni per trasformare i singoli Hub in veri siti in cui amplificare i margini derivanti proprio dalle attività logistiche. La seconda motivazione è, invece, relativa alla qualità delle società preposte alla gestione di Algeciras, Valencia e Pireo. Tre realtà che non solo hanno ridimensionato e non fatto crescere ulteriormente Gioia Tauro ma hanno, addirittura, messo in crisi la possibile crescita dei nostri porti di Genova, di Trieste e di Taranto.

In proposito, ho più volte ricordato un dato: i porti di Algeciras, Valencia e Pireo movimentano a testa cinque milioni di Teu all’anno (cioè globalmente tutti e tre movimentano 15 milioni di Teu). Tutti i porti italiani movimentano 10 milioni di Teu all’anno. Quindi la fine di un grande progetto come quello della Via della Seta dovrebbe offrire una grande occasione alla nostra portualità e, grazie al Pnrr, ci sono anche le risorse per rendere questi Hub strettamente interconnessi con le piastre intermodali presenti nelle vaste aree retroportuali.

Per evitare che tutto questo non venga sfruttato dai nostri porti, non solo occorre fare presto ma è indispensabile “vendere” subito e bene questa nuova offerta che stiamo cercando di costruire; cioè i nuovi operatori, quelli che hanno dovuto abbandonare sia il percorso terrestre nei collegamenti tra l’area asiatica e l’Europa, sia i riferimenti gestionali e i relativi accordi con società russe, vogliono utilizzare non semplici Hub portuali ma organici impianti portuali e interportuali che assicurino lo svolgimento di diversi ed articolati servizi.

In realtà, il management che attualmente gestisce le nostre portualità non deve essere vincolato da una norma, quella della legge 84/94, che toglie a ogni singolo ambito gestionale quella autonomia decisionale capace di costruire nuovi assetti organizzativi, quella autonomia capace di dare vita ad assetti societari con realtà intermodali, con piastre logistiche esterne alle stesse realtà portuali, quella autonomia capace di coinvolgere davvero capitali privati attraverso apposite forme di Partenariato pubblico privato (Ppp). Una autonomia a cui deve corrispondere anche la possibilità di utilizzo di una quota dei proventi da Iva che ogni realtà portuale genera. A tale proposito ricordo, ancora una volta, un dato che penso da solo testimoni la miopia e la paura dello Stato nel trasferire risorse sistematiche in tali Hub logistici. Già in passato mi sono chiesto cosa può fare il titolare del sistema portuale di Genova-Savona con la quota percentuale delle risorse del gettito di Iva pari ad appena 16,5 milioni di euro. Ma ancora peggio cosa potrà in futuro fare il titolare del porto di Augusta in cui su un gettito di Iva prodotto dalla movimentazione pari a 1.524.459.665 euro (oltre un miliardo e mezzo di euro) all’Autorità portuale viene trasferito un importo di appena 7.145.965 euro (poco più di sette milioni di euro). Eppure, sembra assurdo ma esiste una legge (Commi 990 e 991 dell’articolo 1 della legge 296/2006) che consentirebbe un utilizzo adeguato di tale gettito. Ma dal 2006 a oggi lo Stato ne ha consentito l’utilizzazione una sola volta per la costruzione della nuova piastra funzionale di Vado Ligure. Forse dopo questa grave e tragica esperienza rivedremo, finalmente, in modo sostanziale l’approccio alla politica delle nostre realtà portuali.

Se entriamo nel merito del trasporto pubblico locale, non possiamo sottovalutare il lungo vuoto decisionale nella realizzazione delle reti metropolitane nelle grandi realtà urbane. Fino alla legge Obiettivo era stato possibile realizzare, praticamente in quasi sessanta anni (dal 1947 al 2001), solo 45 chilometri di reti metropolitane. Con la legge Obiettivo si sono raggiunti i 225 chilometri; un dato quest’ultimo interessante, ma molto lontano da una soglia minima indispensabile per risolvere le esigenze di una domanda di trasporto di oltre 15 milioni di abitanti nelle grandi aree metropolitane del Paese in cui nel 2019 (prima della pandemia) il costo da congestione aveva superato i 3,5 miliardi di euro e la incidentalità in tali realtà urbane si era attestata su una percentuale superiore al 48 per cento dell’intera incidentalità nazionale.

Quest’analisi sintetica è, senza dubbio, metodologicamente poco corretta, ma penso sia utile per convincerci che ormai siamo in presenza, come detto all’inizio, di un teatro economico in continua evoluzione ed è impensabile rincorrere possibili soluzioni pianificatorie quando, nella maggior parte dei casi, oltre a fenomeni esogeni imprevedibili come la pandemia o la guerra, vengono meno delle condizioni fondamentali come, solo a titolo di esempio:

– la disponibilità di fonti energetiche ed il relativo costo;

– la crescita di alcuni Hub logistici che all’interno del Mediterraneo diventano dominanti;

– l’assenza di autonomie nella gestione di Hub portuali ed interportuali del Paese;

– l’abbattimento dell’inquinamento atmosferico e la difesa del clima;

– un cambiamento dell’Unione Europea caratterizzato sì dall’ingresso di nuovi Paesi ma, al tempo stesso, disponibile verso un ruolo dominante di alcuni Paesi e quindi verso il ricorso del voto a maggioranza nelle scelte strategiche.

E, allora, quale potrebbe essere lo strumento più idoneo per tentare un possibile impianto programmatico? Sicuramente come primo atto dovremmo fissare alcuni punti chiave che definirei “invarianti procedurali” o “primo approccio obbligato” e cioè:

un Piano non redatto da un dicastero ma, nel rispetto della legge 245/84 prima richiamata, da una serie di dicasteri e quindi, a mio avviso, dalla presidenza del Consiglio. E ciò perché non siamo in presenza di un Piano di settore e questo è l’elemento che per quasi quaranta anni (dalla Legge 245 del 1984 ad oggi) abbiamo sempre, ribadisco sempre, ignorato;

una lettura completamente esterna ai fattori nazionali supportata da una analisi capillare dei Piani che l’intero sistema, articolato per Paesi interni alla Unione europea, Paesi esterni all’Ue e presenti nel Bacino del Mediterraneo, Paesi dell’intero assetto internazionale direttamente ed indirettamente interagenti con il Paese, intende portare avanti;

elencazione urgente di provvedimenti che rendono impraticabile ogni azione programmatica capace di consentire agli attori dell’intero comparto di essere concorrenti con le altre realtà manageriali che gestiscono la offerta delle reti infrastrutturali, delle reti dei servizi legate alla mobilità delle persone e delle merci (faccio alcuni esempi: la trasformazione delle Autorità portuali in Spa, la redazione di un Codice Appalti coerente alle esigenze del mercato, una revisione delle forme di Partenariato pubblico privato);

una rilettura integrale del rapporto con la Unione europea sia nel processo di monitoraggio del Pnrr (particolare attenzione ai tagliandi che si effettueranno nei prossimi mesi), sia nelle attività legate a 3 impianti pianificatori quali: Fondo di sviluppo e coesione 2014-2020 (ci sono 30 miliardi neppure impegnati che si perdono entro il 31 dicembre 2023), fondo di Sviluppo e coesione 2021-2027 (una disponibilità di circa 73 miliardi ma allo stato priva di riferimenti propositivi) e l’assurda logica dei Pon e dei Por;

le Reti Ten-T (in corso di aggiornamento definitivo) in cui viene dato grande peso a due interazioni funzionali tra il Mare Mediterraneo e il Mare del Nord attraverso i Corridoi Rotterdam- Genova e Trieste-Rotterdam;

una rilettura dell’articolo 117 della Costituzione non per dare vita ad una sua revisione ma per dare adeguata attuazione e motivazione ai Livelli essenziali delle prestazioni (Lep); questo particolare riferimento non solo affronta il tema dei servizi ma potrebbe creare le condizioni per una rilettura integrale delle strategie mirate al rilancio delle Regioni del Mezzogiorno (i cittadini del Sud hanno un reddito pro capite pari a 17.400 euro e quelli del Centro Nord hanno un reddito pro capite di 36mila euro);

una rilettura delle motivazioni che mantengono 7 Regioni del Paese, nel rispetto del Regolamento 1260/1999 del Consiglio Ue, all’interno dell’Obiettivo 1. Cioè Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Molise, Sicilia e Sardegna hanno un Pil pro capite inferiore al 75 per cento della media comunitaria. Ricordo che fino al 2006 era rimasta in Obiettivo 1 solo la Calabria.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole


di Ercole Incalza (*)