Torna il sovranismo alimentare?

domenica 19 giugno 2022


Dalla confusione delle idee emerge un incredibile ritorno al “sovranismo alimentare”. Quasi una magica ricetta per l’approvvigionamento agricolo alimentare, per il contenimento dei prezzi dei beni di prima necessità e, a seguire, dell’inflazione, per la valorizzazione del made in Italy. Il sovranismo alimentare altro non è che un ritorno all’autarchia e cioè a produrre in Italia quanto basti a soddisfare la domanda interna. Autarchia è parola che riporta a una infausta memoria. Il suo nuovo contenuto si ammanta della crescita dell’export made in Italy. Ma i conti non tornano. Ciò significherebbe produrre più di quanto si consumi e, allo stesso tempo, esportare verso altri Paesi senza importare. Un doppio filtro sugli scambi che non può funzionare. 

Dall’inizio delle statistiche, nel 1911, a oggi la bilancia degli scambi agricoli è sempre stata passiva e quella dell’agroalimentare, comparto creato un po’ surrettiziamente sommando materie prime e prodotti trasformati, solo di recente ha avuto un paio d’anni positivi grazie alla componente alimenti. L’export regge solo grazie a importazioni che integrino la produzione italiana carente quantitativamente e qualitativamente. Ciò vale per la gran parte del made in Italy: pasta, olio d’oliva, formaggi, salumi ma non per il vino, vero pilastro dell’export. I conti sono questi, ma pochi vogliono farli.

L’agricoltura italiana, pur sostenuta dalla Politica agricola europea, non soddisfa il consumo interno, senza contare la quota destinata alle esportazioni alimentari. Chiudere alle importazioni, dunque, ci condannerebbe a meno cibo e a perdere il valore aggiunto della trasformazione. In sintesi: meno cibo e meno reddito per tutti. Da almeno un ventennio i rendimenti produttivi sono in calo. Per il frumento siamo passati dal 75 per cento di copertura del duro e dalla quasi parità del tenero, al 65 per cento del primo e al 64 per cento del secondo, per il mais dalla parità, anzi da un piccolo saldo attivo, al 50 per cento. Per la soia dall’80 per cento dell’inizio degli anni 2000 al 40 per cento. La politica agricola nazionale frena e riduce la produttività, bloccando l’introduzione di innovazione scientifica che gli altri Paesi utilizzano. Favorisce, per un malinteso ambientalismo pseudo-scientifico, forme di coltivazione a bassi rendimenti produttivi e alti costi di produzione unitari, privi di vantaggi economici o ambientali.

La nostra agricoltura ha bisogno di produttività crescente e di migliorare gli scambi commerciali in un mercato più libero e ampio. Esattamente il contrario del sovranismo. Meglio lasciare gli incubi autarchici alla condanna della storia e dei fallimenti scientifici e produttivi e, con una vera politica agricola, prepararsi alle nuove emergenze sanitarie, belliche o di altro genere che il futuro ci può presentare con un sistema produttivo coerente, solido ed efficiente.

(*) Professore emerito di Economia agraria all'Università degli studi di Milano


di Dario Casati (*)