Le recenti decisioni della Bce: contro l’inflazione o contro Italia?

martedì 14 giugno 2022


La presidente della Bce-Banca centrale europea ha annunciato la cessazione dell’acquisto di titoli di Stato dei Paesi membri, la cosiddetta politica di Qe-Quantitative easing, a partire dal 1° luglio e, dal 21 luglio 2022, l’aumento del costo del denaro in area euro di 25 punti base (0,25 per cento), anticipando decisioni attese per l’autunno. Perché non è corretto correlare alla guerra in Ucraina la crisi economica che ha provocato queste scelte, e quali strade vanno percorse per un rilancio autentico, anzitutto demografico.

L’immediato aumento – conseguito all’annuncio della presidente della Bce – dello spread che, come è noto, costituisce la differenza fra il rendimento dei Bot, titoli di Stato italiani, ed i bund, Titoli di Stato tedeschi, assunti a termine di paragone nell’ambito euro, con la negativa deriva di maggiori interessi da pagare sui rendimenti obbligazionari dello Stato italiano, ha suscitato infuocate polemiche politiche e ampio dibattito. Il tutto appare l’ennesima cortina fumogena sollevata per coprire i profili strutturali di una condizione economico-finanziaria che non è un problema solo italiano, pur se Roma si trova ancor più esposta rispetto ad altri alle dinamiche inflazionistiche che costituiscono la causa, almeno prossima, delle decisioni della Bce.

È l’inflazione, dunque, il focus del problema sul quale soffermarsi, considerando i cosiddetti fondamentali macroeconomici, piuttosto che sull’ipotesi che Christine Lagarde intenda favorire i progetti di colonizzazione francese in danno dei Paesi più indebitati – tra cui l’Italia – o che Joachim Nagel, vicepresidente tedesco della Bce, dia fiato alla pressione austeritaria dei Paesi cosiddetti rigoristi, ovvero, ancora, che il premier Draghi punti a ottenere a livello europeo un price cap (controllo sui prezzi) sulle materie prime, energetiche in particolare.

È falso che l’aumento dell’inflazione dipenda dalla guerra in Ucraina, in particolare per l’asserito effetto della crisi nell’approvvigionamento energetico delle materie prime per la pretesa degli Stati europei di ridurre la propria dipendenza in materia dalla Federazione russa, destinataria delle relative sanzioni contro la sua aggressione a Kiev: l’indice dei prezzi al consumo e lo stesso costo degli idrocarburi e della altre commodities, tra cui i prodotti agricoli di base è in forte crescita da ben prima del 24 febbraio 2022: d’altronde l’inflazione è in significativo aumento sia in Europa che negli Usa sin almeno dall’estate 2021.

Per meglio comprendere che cosa sta accadendo, occorre allora recuperare la seconda accezione del termine “inflazione”, con il quale, oltre ad indicare l’aumento dell’indice dei prezzi al consumo, la scuola austriaca di economia significa più in generale l’estensione, dal latino inflare-gonfiare, della quantità nominale dei mezzi di pagamento da parte del sistema finanziario internazionale, tendenzialmente resa illimitata dallo sganciamento, nella creazione di moneta da parte delle banche centrali, dei correlati valori economici: è la cd. finanziarizzazione dell’economia, in cui vige il primato delle monete fiat, cioè create su base puramente nominale senza alcun aggancio con beni reali, come era l’oro nel sistema monetario cosiddetto Golden Standard, e neppure con la garanzia statale degli Stati sovrani.

Costoro si indebitano non solo attraverso il tradizionale batter moneta, bensì soprattutto mediante l’emissione di obbligazioni di Stato che, nel caso della Ue, sono state, specie dopo la crisi finanziaria del 2010/2011, garantite direttamente dalla Bce: quest’ultima, in occasione della crisi pandemica da Covid-19, ha notevolmente aumentato il volume degli acquisti sul mercato secondario di tali titoli di Stato, a partire dalla primavera 2020, attraverso il cosiddetto Pepp-Pandemic emergency purchase programme: ciò che Lagarde ha annunciato cesserà a partire dal 1° luglio.

L’enorme massa di liquidità monetaria immessa sul mercato finanziario mondiale, in realtà costituiva già una forma di contrasto alla prima Gcf-Grande crisi finanziaria del 2008, poi sostenuta, in ambito euro, dal “Whatever it takes” di Draghi quando era presidente della Bce nel 2011 ed infine dal Pepp in epoca Covid; la liquidità monetaria secondaria, cosiddetta M2, comprendente oltre alla moneta e ai depositi in conto corrente, tutte le altre attività finanziarie con elevata liquidabilità e valore certo, è passata dai 20mila dollari di inizio millennio agli oltre 100mila dell’ottobre 2021! Tale liquidità ha essa stessa un effetto inflazionistico, nel senso tradizionale del termine, cioè dell’aumento dei prezzi al consumo e del diminuito valore d’acquisto della moneta, in quanto deprime il rendimento del denaro, non a caso spinto negli anni pandemici addirittura verso lo zero o al di sotto dello zero: l’effetto-finalità è di rendere più agevole la restituzione dei prestiti da parte degli Stati sovrani indebitati, che pagano a un valore inferiore a quello del prestito ottenuto in conseguenza del minore rendimento nominale della moneta, e meno remunerativo per i cittadini che hanno sottoscritto le obbligazioni, che si vedono retribuiti con moneta che ha un decresciuto valore di acquisto.

La spirale inflazionistica, che porta ad emettere nuove obbligazioni per pagare i rendimenti di quelle precedentemente emesse, è rimasta sostanzialmente confinata fino al 2020 solo in ambito finanziario (la cosiddetti asset inflation), ma è poi esplosa con i lockdown pandemici, che hanno interrotto la catena della distribuzione delle materie prime e indotto l’iniezione di sovvenzioni statali ai settori in crisi per l’arresto delle attività economiche, accompagnandosi al rialzo dei prezzi al consumo, con potenziali effetti di stagflazione, cioè di inflazione + crisi economica.

Se, dunque, si considera che il rapporto debito pubblico/Pil è esponenzialmente aumentato a livello mondiale e si è aggravato per i Paesi già fortemente esposti, come l’Italia in cui è passato dal 135 per cento di prima del Covid al +153 per cento dell’ottobre 2021, le decisioni della Bce appaiono non una scelta, ma un passaggio obbligato dalla insostenibilità del sistema. Che si tratti, poi, di una modalità adeguata di soluzione del problema, è altra questione: è fortemente in dubbio che l’improvvisa eliminazione della “droga” del Qe faccia guarire il malato cronico dell’economia europea, specie quando questi versi in stato preagonico, come nel caso dell’Italia, e non sia rimedio peggiore del male, almeno in termini di posologia farmacologica e modalità di intervento terapeutico!

In realtà, chi ha responsabilità politica di gestione del bene comune delle Nazioni dovrebbe prendere coscienza che la ricorrenza delle crisi economiche manifesta un profilo strutturale che esige un approccio radicalmente diverso: un approccio che sposti l’attenzione nuovamente sulle reali esigenze dell’oikos, cioè della “casa comune”, da cui deriva il termine economia, e sulla necessità di recuperare la centralità del rapporto fra l’uomo e i beni di cui egli ha bisogno per vivere, nell’ottica del primato del primo sui secondi.

In tale prospettiva, risulterà allora evidente che l’unica “inflazione” buona, di cui l’Occidente ha bisogno, è quella dei figli, essendo piuttosto l’’inverno’ demografico la causa principale della crisi dell’economia, specie in Paesi di elevato sviluppo di welfare, in cui l’equilibrio intergenerazionale è fondamentale per garantire l’assistenza dei giovani agli anziani, tale da richiedere politiche di lungo respiro di recupero della centralità della famiglia e di una fiscalità proporzionata ai bisogni della società prima che a quelli dello Stato.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Renato Veneruso (*)