martedì 10 maggio 2022
Sfatiamo un luogo comune che si sente abbondantemente ripetere: quello secondo cui in Italia i Governi abbiano imposto negli anni politiche di contenimento della spesa pubblica. È una austerity immaginaria, che non trova riscontro alcuno nei dati ufficiali. Eppure continua a tenere banco una versione dei fatti che vorrebbe far passare per vera una narrazione smentita dai fatti. I fatti sono quelli espressi dai numeri: dagli anni Novanta a oggi il debito pubblico è stato costantemente oltre la soglia del 100 per cento del Pil (Prodotto interno lordo). E negli ultimi otto anni, cioè dal 2014, il rapporto rispetto al Pil non è mai sceso sotto il 131 per cento, fino a superare il 150 per cento negli ultimi due anni segnati dalla pandemia. Se l’ultimo biennio ha avuto carattere di eccezionalità, non altrettanto può invece dirsi per gli anni precedenti.
Nonostante che il pareggio di bilancio sia stato recepito in Costituzione dal 2011, il debito pubblico è continuato a crescere ogni anno al ritmo di alcune decine di miliardi, anche in presenza del vincolo costituzionale e dei limiti europei. Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe potuto succedere se non ci fosse stata l’Europa ad effettuare continui richiami sull’esigenza di contenimento della spesa pubblica. Ad aumentare non è stata la spesa per investimenti, ma soprattutto quella sociale legata all’assistenza. Come se la bilancia pendesse sempre di più sul lato dei diritti che i cittadini possono pretendere dallo Stato sociale.
A parte i casi di Italia e Francia, la generalità dei Paesi europei è riuscita a contenere il debito pubblico pur partendo da percentuali già molto più basse di quelle italiane. Evidentemente è possibile, se vi è la volontà politica. Il dibattito italiano (solo ed esclusivamente italiano) di spalmare il debito pubblico su tutti i Paesi dell’Ue, compresi quelli virtuosi, oltre che inutile è anche poco edificante. La soluzione va cercata a livello nazionale e richiede una forte assunzione di responsabilità.
di Andrea Cantadori