Evoluzione storica del fallimento in Italia

venerdì 25 marzo 2022


Il fallimento in Italia è stato per un lungo periodo un retaggio medievale. L’imprenditore fallito doveva vestirsi di un colore diverso, perché doveva essere posto al pubblico ludibrio. Tutti dovevano essere a conoscenza che quell’imprenditore non aveva onorato i propri debiti. Le modalità di additare il fallito si sono perpetuate fino al 2006, quando è finalmente intervenuta la riforma del Diritto fallimentare. In realtà, non esiste un’attività d’impresa che non sia esposta al rischio di una procedura fallimentare.

Le variabili di gestione di un’impresa prevedono pure la possibilità che una attività possa incorrere nel fallimento, per ragioni legate anche al settore economico in cui l’azienda opera. In sostanza, la riforma ha mutuato il sistema dell’insolvenza tipica del mondo anglosassone. Il fallimento è insito in ogni sfida, tanto è vero che nella Silicon Valley, tempio delle sfide tecnologiche e imprenditoriali, il motto è “fail fast, fail often, learn faster”: fallisci velocemente, fallisci spesso, impara più velocemente. Insomma, Oltreoceano è normale pensare che alla base di ogni successo ci sia stato un fallimento.

Fallimenti hanno caratterizzato gli esordi di Henry Ford nel mondo dell’automobile e di Thomas Edison per le sue lampadine. La storia di Chris Gardner, che ha ispirato il film “La ricerca della felicità”, è emblematica di come da un fallimento che ti condanna a diventare un senzatetto si possa ricostruire la propria fortuna. In realtà, è pacifico pensare che se si incomincia un’attività d’impresa, esiste certamente la possibilità che essa possa andare male. Se bastasse iniziare a fare impresa per avere senza dubbio successo, tutti diventerebbero imprenditori, mentre in realtà sappiamo che l’imprenditore è colui che rischia i propri capitali, mettendo in conto la possibilità di perdere il capitale apportato in azienda. Eppure, in Italia il fallimento è stato sempre un errore imperdonabile con effetti patrimoniali e personali devastanti per il fallito, in sostanza un fine pena mai.

Il fallito viene spossessato dei suoi beni, perdendone l’amministrazione e la disponibilità. Egli è tenuto a consegnare al curatore la propria corrispondenza riguardante i rapporti compresi nel fallimento e a comunicare al curatore ogni cambiamento di residenza o domicilio. Perde la legittimazione processuale attiva e passiva, non può svolgere alcune attività quali: il tutore, curatore, amministratore e sindaco di spa, arbitro, avvocato, commercialista e ragioniere, notaio, ingegnere, farmacista. Solo nel 2006 è stata cancellata la perdita per il fallito del diritto di voto e, quindi, l’incapacità elettorale attiva e passiva.

La ratio della riforma, iniziata nel 2006, aveva come scopo quello di mettere al centro l’impresa e i suoi dipendenti. L’obiettivo è quello di passare da una gestione passiva del curatore fallimentare a esperire ogni tentativo di salvare anche parti dell’azienda e il personale dipendente. Gli ultimi interventi legislativi sono volti a perseguire il salvataggio delle imprese e di chi ci lavora, che sono un patrimonio del nostro Paese. Speriamo che anche le banche cambino la loro policy. Oggi, l’impresa che ha subito una procedura concorsuale e, che è stata riabilitata ed esdebitata, rischia di non trovare una azienda di credito disposta ad aprire anche un semplice conto corrente bancario.

(*) Revisore legale

(**) Dottore commercialista


di di Antonio Giuseppe Di Natale (*) e Mariano Totaro (**)