martedì 18 gennaio 2022
Desta scalpore scoprire come negli Usa l’inflazione abbia raggiunto il 7 per cento, un valore che non si vedeva da 40 anni. Ma è da una dozzina di anni almeno che le banche centrali sbagliano le proprie previsioni sul tasso d’inflazione. Dapprima dando per scontato che le loro politiche espansive sarebbero state capaci di far risalire la crescita annua dei prezzi verso quel 2 per cento che era e rimane il loro obiettivo canonico. Poi, dopo la crisi pandemica del 2019, scommettendo sul fatto che solo a causa di fattori accidentali e transitori il tasso di inflazione stesse lievemente superando il solito obiettivo. È un po’ la solita storia: tutte le volte ci si illude che le cause dell’inflazione riguardino altri che non le banche centrali e magari che abbiano a che fare con fenomeni “temporanei” e contingenti. La semplice verità è che il controllo del tasso d’inflazione è responsabilità delle banche centrali.
Purtroppo i loro errori di previsione di segno contrario non si compensano, e rischiano invece di intaccarne la credibilità. Se quella credibilità viene meno, operatori e mercati perdono l’àncora alla quale legare le proprie aspettative sui prezzi. Ed è un “si salvi chi può”: quando ciascuno fissa i propri listini di vendita, o stipula il proprio contratto di lavoro, non conosce più quale sarà la capacità di acquisto del denaro che riceverà in cambio della sua merce quando effettivamente la venderà, né del suo salario quando effettivamente lo incasserà. E allora manterrà alto il prezzo della sua merce e del suo lavoro, sperando di costruirsi uno spazio che gli consenta di neutralizzare gli effetti di una caduta del valore reale della moneta.
Il problema è che, una volta che l’inflazione abbia preso il volo, sradicare “aspettative inflazionistiche” diffuse diviene molto costoso; spesso richiede di passare per fasi con tassi di disoccupazione elevati e duraturi. Dunque per le banche centrali il momento di agire era ieri, non domani. Non potendo tornare indietro, sia oggi. La Federal Reserve Usa ne sembra diventata consapevole, nelle parole del suo presidente e in quelle della sua vicepresidente appena designata. Il primo rialzo dei tassi d’interesse è atteso per marzo prossimo, e nel corso dell’anno ne potrebbero seguire altri tre. La Banca centrale europea tentenna. Con l’argomentazione secondo la quale qui in Europa la situazione è diversa rispetto agli Usa: l’inflazione è ancora inferiore di un paio di punti, e la pressione al rialzo dei salari minore. Ma è proprio perché l’Europa è in ritardo rispetto agli Usa di qualche mese che ha l’opportunità di intervenire più tempestivamente di quanto possano ormai fare gli Usa.
Ed è proprio l’esempio Usa a far vedere che, senza le opportune correzioni della politica monetaria, l’inflazione rischia di accelerare, e la correzione si fa poi più dolorosa. Sullo sfondo riemergono intanto le opinioni di chi ritiene che qualche anno d’inflazione elevata non sia poi così male. Spesso sul lato sinistro degli schieramenti politici. Trascurando il fatto che coloro che più pagano il costo dell’inflazione sono precisamente le persone più deboli. E dimenticando che se allo stadio tutti si alzano sulla punta dei piedi, nessuno vedrà meglio la partita, ma tutti staranno più scomodi, e quindi la volta prossima non compreranno il biglietto. Difficile immaginare una maggiore prosperità del business sportivo – fuor di metafora: dell’economia nazionale – se meno gente vi partecipa.
(*) Componente del comitato d’indirizzo Istituto Bruno Leoni
di Natale D’Amico (*)