Il Mezzogiorno e il caso Puglia

mercoledì 8 settembre 2021


Perché un’area così vasta, con un rilevante patrimonio umano e con una ubicazione geografica prestigiosa, sia rimasta sempre ferma in termini di crescita. La prima osservazione, o meglio, una prima possibile risposta è da ricercare nel fatto che abbiamo commesso un forte errore nell’approccio: non ha senso parlare di Mezzogiorno utilizzando come riferimento geografico il Sud del Paese e le isole. Forse aveva e ha senso identificare solo due realtà regionali: la Calabria e la Sardegna, ma questo approccio doveva essere fatto sin dall’inizio.

La questione meridionale, infatti, è stata caratterizzata da un grande errore metodologico, politico ed economico: costruire delle omogeneità tra realtà territoriali che in comune avevano solo la ubicazione geografica. A tale proposito c’è da chiedersi quale sia l’elemento che riconosce un identico stato di crisi tra la Campania e l’Abruzzo, tra il Molise e la Puglia, tra la Basilicata e la Sicilia, tra l’Abruzzo e la Sardegna. L’Unione europea in realtà è stata il primo organismo istituzionale che ha subito riconosciuto circa sei anni fa questa anomalia procedurale denunciando subito che rimanevano all’interno del cosiddetto “Obiettivo Uno” solo quattro Regioni: Sardegna, Calabria, Molise e Basilicata e fra due anni solo Sardegna e Calabria. Invocare invece l’intera area meridionale con all’interno sette Regioni è servito essenzialmente come strumento capace di dare rilevanza politica e, in parte, economica alla emergenza presente in alcuni ambiti circoscritti del Sud. Allora la povertà in Puglia, il forte tasso di emigrazione in Abruzzo e Molise, la disoccupazione e la malavita in Campania e in Sicilia erano e ancora oggi sono solo “invenzioni mediatiche”?

Questo interrogativo impone un approfondimento e una analisi per ogni singola realtà regionale; un approfondimento che ci farebbe scoprire subito che nelle cinque Regioni a mio avviso estranee a uno stato di crisi (Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata) da molti anni, forse sin dal dopoguerra, la sommatoria delle potenzialità in termini di produzione era enorme e il passaggio dalla condizione “potenziale” a quella “reale” si è rivelato sempre difficile. La causa denunciata da sempre è stata: la carenza di infrastrutture e la limitatezza degli incentivi. Due denunce che, però, si sono rivelate false. Nell’intero sistema meridionale ci sono infrastrutture superiori a quelle di aree del Nord del Paese come quelle di Milano, Bologna e Torino. Per quanto concerne gli incentivi è facile verificare che in queste cinque Regioni dal 1951 al 2017 lo Stato ha trasferito risorse per oltre 280 miliardi di euro.

E allora diventa davvero difficile capire le motivazioni della “non crescita”. Il primo motivo, a mio avviso, va ricercato nella assenza di una politica industriale o, peggio ancora, nella presenza di una politica industriale sbagliata. Bagnoli a Napoli, l’Ilva a Taranto, l’Isab ad Augusta, il porto canale di Cagliari, il porto di Gioia Tauro, sono gli esempi classici di una politica e di una strategia sbagliata. La finalità nelle scelte era legata essenzialmente alla creazione di posti di lavoro e mai alla analisi delle scelte che avrebbero dovuto produrre i posti di lavoro.

A titolo di esempio mi pongo due interrogativi:

– Bagnoli a Napoli e l’Ilva a Taranto erano coerenti a una politica siderurgica di dimensione addirittura internazionale?

– L’area industriale di Priolo-Augusta e quella industriale di Cagliari con il porto canale rispondevano a una esigenza produttiva del Paese. In particolare, il processo di raffineria e di produzione di urea ad Augusta era congeniale con un Paese che aveva obiettivi industriali sicuramente non così bassi?

Se ci convincessimo di questi errori allora quella che chiamiamo “non crescita” non sarebbe più un mistero almeno per quella vasta area che erroneamente riteniamo omogenea e chiamiamo “Mezzogiorno”. All’interno di questa vasta realtà socio-economica la Puglia riveste un ruolo strategico particolare su tre distinti fronti: quello logistico, quello energetico, quello urbanistico. Quello logistico caratterizzato da tre impianti portuali che devono essere ricondotti a unità gestionale e, soprattutto, come riportato di seguito in piena “autonomia”. Ogni realtà portuale ha sempre cercato di raggiungere l’obiettivo della cosiddetta “autonomia gestionale”, dal 1994, data in cui fu approvata la Legge di riforma del sistema portuale del Paese. Un obiettivo che nella Legge di riforma era garantito attraverso l’articolo 6 commi 2 e 3 in cui veniva ribadito che “L’autorità portuale ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotata di autonomia di bilancio e finanziaria” e l’articolo 18 bis intitolato proprio “Autonomia finanziaria delle autorità portuali”; tuttavia nei fatti tali norme non sono mai state applicate nel rispetto di una vera e corretta “autonomia gestionale”. Nel Decreto legislativo 169/2016, ultimo provvedimento che ha riformato il comparto portuale, all’articolo 11 compare un tentativo di autonomia gestionale, ma trattasi di un cenno completamente inutile perché non rende possibile nessuna concreta attività autonoma.

C’è da chiedersi, allora, in cosa consistesse e in cosa consiste questa “autonomia gestionale”? Molti esperti del settore l’hanno identificata come un rischioso strumento mirato, nel migliore dei casi, alla crescita di un porto a danno di un altro, nel peggiore dei casi ad una incontrollabile gestione del potere. Questa lettura l’abbiamo sempre ritenuta miope e, perfino, incomprensibile; ad esempio, il gestore del porto di Rotterdam è un manager che gestisce l’impianto portuale cercando di ottimizzare al massimo le potenzialità del porto ricorrendo a tutte le possibili logiche di mercato, firmando anche accordi con porti dell’Estonia o della Francia e partecipando alla gestione di altri impianti logistici portuali e interportuali addirittura esterni all’ambito nazionale. Questa eccessiva autonomia potrebbe generare contrasti con la strategia nazionale? Non incorriamo nella tentazione della facile e, al tempo stesso, infelice battuta (“nel caso italiano quale strategia”), ma ci soffermiamo sul fatto che anche questo timore dimentica la peculiarità di una realtà portuale.

A tale proposito è opportuno che ci si convinca di un fatto: i porti, almeno quelli con caratteristiche dimensionali e infrastrutturali di livello elevato, non sono siti di una Regione o di un Paese, ma sono ambiti geografici che diventano geo-economici se superano proprio la dimensione localistica, la dimensione “provinciale” e si collocano in un’area in cui non hanno senso logiche estranee al “libero mercato”, come: la solidarietà con altri ambiti portuali limitrofi, il mantenimento di soglie della offerta di trasporto per non incrinare la crescita di ambiti portuali ubicati nello stesso Paese, il blocco di forme di concorrenzialità eccessiva con ambiti dello stesso sistema. L’atto più dirigistico che il Governo potesse fare è stato quello di identificare le quindici Autorità di sistema portuale (il Piano generale dei trasporti nel 1986 ne aveva indicati solo sette), la trasformazione di tali ambiti geografici in realtà geo-economiche, in sedi delle convenienze e dello sviluppo, spetta al gestore del sistema.

Allora prima operazione che riteniamo opportuno fare è quella di identificare una unica Autorità portuale quella caratterizzata dai porti di Bari, Taranto e Brindisi. Tra l’altro i porti, di Taranto e Brindisi sono collegati da un asse ferroviario che può davvero svolgere il ruolo di canale secco per amplificare al massimo le potenzialità dei due impianti e al centro dei due impianti c’è l’interporto di Francavilla che può davvero diventare nodo di aggregazione per prodotti agro alimentari. Non ci meraviglieremmo affatto se, ad esempio, in un futuro prossimo, il presidente dell’Autorità Portuale così rivisitata (i cui porti chiave sono quelli di Bari, di Taranto e di Brindisi) entrasse direttamente nella gestione dei porti di Bar in Montenegro e di Durazzo in Albania e una simile scelta la facesse non ricorrendo a gratuiti e inutili memorandum of understanding, ma acquistando direttamente azioni delle società preposte alla gestione di tali porti.

Il liberismo nella portualità dovrebbe essere una condizione obbligata e l’assenza di una vera e misurabile “autonomia gestionale” azzera proprio la categoria del liberismo e relega la economia di un porto, nel migliore dei casi, ai fenomeni congiunturali classici: anni di crescita, anni di crisi, anni di stasi. In fondo Genova, Livorno e Trieste rimangono, in termini commerciali, i riferimenti portuali storici del nostro Paese proprio perché in passato hanno vissuto le condizioni tipiche di un “libero mercato”. Convinciamoci, quindi, che l’autonomia gestionale di un impianto portuale è una condizione obbligata per il rilancio concreto della offerta portuale dell’intero Paese.

Queste ipotesi, queste indicazioni sono da considerarsi antitetiche a ciò che spesso chiamiamo “programmazione organica”? Riteniamo proprio di no; lo Stato deve solo garantire infrastrutture capaci di fare interagire il singolo sistema con le realtà produttive e logistiche retro-portuali, lo Stato deve solo assicurare la fluidità dei transiti e annullare le penalizzazioni dell’ultimo miglio, il resto deve competere alla intelligenza del gestore autonomo del sistema portuale, una intelligenza che non può essere frutto di logiche di schieramento politico, ma solo di misurabile capacità professionale.

Quello energetico e dell’acciaio caratterizzato da precisi e misurabili riferimenti strutturali come la Centrale Enel di Brindisi, le due condotte caratterizzate dal collegamento Tempa Rossa-Taranto e dalla Tap e, per quanto concerne l’acciaio, l’impianto industriale dell’Ilva.

Questa serie di singolarità, questa serie di condizioni offerte dal territorio a determinati operatori economici non può non offrire occasioni di reale sviluppo. Per questo motivo prospettiamo la opportunità di costruire un Fondo eotativo dell’Energia e dell’Acciaio. Un Fondo che si configura come una normale compensazione tra l’uso del territorio e la certezza nel tempo di una certificata garanzia sul mantenimento, soprattutto, dei livelli ambientali; il Fondo è rotativo perché finalizzato a realizzare, con una cadenza biennale, determinati interventi infrastrutturali.

Attualmente l’impianto dell’Ilva assicura circa 12mila posti di lavoro mentre l’attraversamento delle due condotte energetiche non assicura nessuna iniziativa compensativa; in realtà oltre ai problemi di natura ambientale, la Tap ad esempio ha già generato a scala internazionale un danno di immagine sulla qualità delle spiagge salentine sul mar Adriatico, vanno considerate le possibilità di poter utilizzare, con adeguati sconti, quote dei prodotti energetici che attraversano la Regione.

In questo contesto si inserisce lo strumento della Zona economica speciale che nella sua più congeniale funzione, quella ubicata nella vasta area del Hub logistico di Taranto, può diventare un vero catalizzatore di tutte le iniziative commerciali gravitanti nel sistema pugliese. Prendendo come riferimento le tonnellate movimentate sia su ferrovia, sia su strada, sia per condotta e tenendo conto che la Puglia movimenta circa 5 milioni di tonnellate di acciaio e 8 milioni di tonnellate di prodotti energetici in condotta, otteniamo un valore globale di 13 milioni di tonnellate. Ipotizzando una quota minima di 5 euro per tonnellata si ottiene un valore globale per anno pari a 65 milioni di euro. Una base davvero interessante capace di poter garantire un impegno di circa 600 milioni di euro (un muto decennale consente infatti la disponibilità di tale importo).

Quello urbanistico: la Puglia o meglio Le Puglie furono articolate da Federico II in tre distinti ambiti istituzionali. Ovvero la Capitanata, la Terra di Bari e la Terra d’Otranto, mentre volendo identificare le aree fisiche possiamo fare riferimento a quattro distinti ambiti: il Gargano, il Tavoliere, le Murge e la Penisola Salentina. Questa identificazione geografica possiede anche delle potenzialità geo-economiche che, a mio avviso, danno origine a tre distinti tessuti urbani: le città della Daunia, la grande città lineare sul mare adriatico e il sistema urbano jonico-salentino. Tre realtà con distinte capacità socio-economiche, tre realtà che attraverso una riqualificazione funzionale delle reti viarie e ferroviarie esistenti possono diventare le tre città della Puglia.

Il primo sistema quello con baricentro Foggia può, attraverso sia la ferrovia concessa Garganica, sia la rete delle Ferrovie dello Stato, disporre nei prossimi anni di una offerta trasportistica davvero significativa che congiunta con i servizi su gomma può offrire a questa vasta area un tessuto connettivo più congeniale con un assetto tipicamente urbano. Una città che dispone di un impianto aeroportuale finora sottoutilizzato come quello del Gino Lisa di Foggia.

Il secondo sistema quello con baricentro Bari dispone già di tutte le potenzialità infrastrutturali per poter essere definito sistema urbano lineare; ci si riferisce in particolare all’asse longitudinale caratterizzato dai Comuni di Andria, Barletta, Trani, Bitonto, Bari, Mola, Polignano, Monopoli, sulla costa e dai Comuni di Putignano, Conversano, Noicattaro, Triggiano, Capurso, Turi, Palo, Modugno nell’entroterra. Questa macro-città dispone di tre distinti assi ferroviari, quello delle Ferrovie dello Stato, quello delle Appulo-Lucane e quello delle Ferrovie del Sud Est, tre reti che possono davvero essere trasformate come rete capillare di tipo “metropolitano”. Una città che dispone di un impianto aeroportuale, quello di Palese, di grande rilevanza strategica.

Il terzo sistema quello jonico-salentino, caratterizzato da tre ambiti urbani più grandi, Brindisi, Lecce e Taranto dispone però di una miriade di Comuni piccoli e grandi fra loro legati da una capillare rete viaria e da due reti ferroviarie quella delle Ferrovie dello Stato e quella delle Ferrovie del Sud Est. Anche in questo caso reti che vanno rivisitate integralmente per renderle davvero coerenti alle esigenze della domanda di trasporto dell’intero sistema jonico-salentino. Questa città dispone di due impianti aeroportuali quello di Grottaglie e quello di Brindisi.

Questa lettura porterebbe automaticamente a una riconsiderazione del disegno urbanistico gestionale delle tre macro aree; quasi un ritorno alla intuizione federiciana delle tre realtà prima riportate: la Capitanata, la Terra di Bari e la Terra d’Otranto; una rilettura che non va insilata nelle categorie tipiche della nostra articolazione amministrativa (Regione, Provincia, Comune) ma in un nuovo contesto che dovrebbe essere molto più simile ad un assetto societario, sì più simile ad una vera Società per Azioni. È una proposta poco concreta? Forse irrealizzabile? A prima vista sì ma, alla luce di una prima lettura della specificità delle realtà urbane e delle caratteristiche fisiche che caratterizzano la Puglia, forse siamo in grado di convincerci che è davvero antitetico utilizzare riferimenti urbanistici classici. Forse potrebbe essere una esperienza pilota da non sottovalutare.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole


di Ercole Incalza (*)