Gli sfruttati sorridenti della “certificazione europea”

venerdì 25 giugno 2021


La domanda che sempre più gente si pone è se l’Europa sia nella sua normazione da considerarsi solidarista o esclusiva, pietista (alla “volemose bene”) o sanzionatoria fino all’estremo. Da decenni spieghiamo ai lettori quanto le norme europee, a cui ogni Paese membro è costretto ad omologarsi, siano profondamente non inclusive, al punto da mettere in discussione e nell’angolo gran parte dei nostri principi costituzionali. Così capita, solo per fare un esempio, che l’avvocato dell’azienda potrà sempre più spesso sostenere che, in base a varie norme Ue, il lavoratore non avrà titolo ad essere pagato perché, “pur avendo svolto un lavoro a regola d’arte, è risultato privo di percorso formativo e di curriculum certificato europeo”.

La difesa del poveretto obietterà “la Costituzione italiana contempla all’articolo 36 che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: non dimentichiamo che nel 1970 il Titolo III della Costituzione s’arricchiva dello “Statuto dei Lavoratori”.

Una magistratura timorata della normazione europea potrebbe anche risultare irrispettosa dei nostri diritti costituzionali, quindi condannare il lavoratore alle spese, se non anche a varie sanzioni, per aver preteso d’essere pagato per una prestazione che non avrebbe titolo ad eseguire. Badate bene che questa pedissequa disamina della titolarità prescinde da titoli di studio conseguiti o lavori precedentemente svolti, si basa esclusivamente sul poter dimostrare all’eventuale arbitro d’essere in regola con i punti formativi (corsi on-line o in presenza fisica). L’attenersi alla formazione obbligatoria riguarda ogni mestiere o professione, dal netturbino al chirurgo, dall’ingegnere al carrozziere, dal cuoco al docente. Ecco che il lavoratore, per evitare di ricorrere ai tribunali, sempre più spesso s’accontenta del piatto di lenticchie, di fatto accettando la reintroduzione d’una sorta di servitù della gleba.

Se poi consideriamo il combinato disposto di povertà irreversibile (per motivi bancari, fiscali, giudiziari) e complicata burocrazia on-line per accedere al mondo del lavoro, se ne deduce che sempre meno cittadini riusciranno ad inserirsi e, purtroppo, ancor meno potranno percepire un compenso dopo aver svolto un lavoro. All’alta burocrazia non rimane altro che prendere atto che ben cinque milioni d’italiani non potranno più sortire dalla povertà, che altrettanti non cercheranno mai di mettersi nell’alveo degli aventi diritto perché stressati dalle norme Ue su formazione e curriculum. Il paradosso è che oggi si può non pagare un lavoratore perché privo dei titoli richiesti dalle normative Ue per la prestazione d’opera.

Lo sfruttamento legalizzato è ormai l’adagio in uso proprio nelle civilissime nazioni centro e nord-europee, le stesse che accusano l’Italia di crimini verso i migranti. Così succede che il povero Abdul raggiunga con mezzi di fortuna Amsterdam, Rotterdam o Copenaghen, lì conosce una simpatica coppia di locali biondicci e ialini, sorridenti ma di poche parole: i debolucci nordici accettano che Abdul si sfondi la schiena trasportando per loro pesantissime casse, quindi lavora per loro orto e giardino, per circa un mesetto fa pure il muratore e poi mette in ordine il magazzino di ferramenta e prodotti agricoli di proprietà dei biondicci. Per un paio di mesi scarsi tutto fila liscio, i biondicci trattano Abdul come fosse uno dei loro gatti o cani, non facendogli mai mancare la ciotola.

Poi Abdul, che ormai ha imparato anche qualche parolina della locale lingua (s’arrampica tra inglese, fiammingo e tedesco), chiede ai biondicci d’essere messo in regola, una paga oltre la ciotola. La coppia si mostra sorridente come nelle favole illustrate. Il giorno seguente bussa a casa dei biondicci il rappresentante del borgomastro accompagnato da due agenti della locale polizia, il gruppo condurrà Abdul dinnanzi ad un giudice unico sul tipo del nostro vecchio pretore (in Italia abolito una trentina d’anni fa e sostituito col Giudice di pace). Mentre si svolgono i fatti la coppietta nordica è sempre sorridente. Abdul è controllato a vista dai poliziotti, mentre il pretore chiede al mediatore-interprete di domandare all’extracomunitario se è in possesso dei requisiti per lavorare: un curriculum certificato, documenti che accertino un percorso formativo certificato, e per finire i documenti di Abdul.

Il rappresentante del borgomastro fornisce la testimonianza scritta dei biondicci, in cui s’acclara che Abdul avrebbe preteso soldi in cambio d’una prestazione d’opera abusiva. Il rappresentante del borgomastro dimostra che la coppia è nell’elenco delle locali famiglie che, per filantropia, quotidianamente cucinano per cani, gatti e senza fissa dimora. Il destino d’Abdul è segnato, verrà immediatamente rimpatriato o instradato verso la nazione europea di primo approdo (Italia, Grecia o Spagna). Il giorno dopo un nuovo migrante cercherà di farsi bello dinnanzi ai biondicci, e dopo un paio di mesi anche lui cederà il passo. Ma stessa sorte può benissimo toccare a spagnoli, italiani e greci: ovvero cittadini che provengono da Paesi Ue che hanno preso non tanto seriamente le procedure di certificazione e formazione.

In quelle plaghe del Nord Europa basta la testimonianza d’un “bravo cittadino” perché l’europeo mediterraneo venga bollato come “non gradito”, un po’ come ne “I magliari” di Francesco Rosi, che ritrae le disavventure d’un gruppo d’italiani in cerca di lavoro ad Hannover dove c’era e c’è un nucleo della polizia che indaga su tutti gli stranieri che si danno da fare. Lì la polizia è al fianco dell’impresa: perché l’Unione europea impone che l’azienda si sinceri, ed attraverso scrupolose indagini, che il lavoratore sia in possesso delle certificazioni che attestino i requisiti per svolgere qualsivoglia lavoro, dal medico all’ingegnere, dal ragioniere al geometra, dal giardiniere all’inserviente. Tutti sono tenuti alla “formazione continua” e, soprattutto, a munirsi di “curriculum certificati”. La certificazione previdenziale avviene solo in cambio d’un effettivo versamento contributivo. Hannover, Amsterdam, Amburgo sono pervase di profonda cultura protestante, il curriculum all’italiana che elenca lavori a nero (non certificabili) viene sanzionato per “dichiarazioni mendaci” dalla locale polizia, e trasforma chi lo presenta in un “non desiderato”.

L’idea del curriculum certificato nasce con “Europass”, uno dei cosiddetti “servizi” offerti dalla Commissione europea. L’obiettivo in origine era offrire un formato standard per i curriculum in Europa. Ovvero un servizio certificativo (piace tanto ai tedeschi) che accompagni la circolazione dei lavoratori in ambito Ue. Con “Europass” un sito supporta sia la creazione del documento che l’invio dello stesso “curriculum certificato” ai potenziali datori di lavoro.

Di fatto “Euro Cv” sarebbe un servizio integrato con il sistema “Hr-Xml”, per condividere i curriculum fra utenti e aziende. Permettendo così più verifiche, utili a smascherare curricula mendaci di chi cerca d’accaparrarsi il posto di lavoro. Europass viene definita come “un’iniziativa della Direzione generale Istruzione e Cultura dell’Unione europea per migliorare la trasparenza delle qualifiche e della mobilità dei cittadini”. Costituito da cinque documenti (Curriculum, Passaporto delle lingue, Europass mobilità, Supplemento della certificazione e Supplemento al diploma) dovrebbe rendere chiaramente comprensibili le capacità e le competenze d’ogni singolo lavoratore europeo.

È inutile dire che i siti internet relativi a Europass sono lievitati in poco tempo. Perché ogni Ente – o scuola di formazione professionale – si sente autorizzato ad aiutare disoccupati e precari. Quello ufficiale, direttamente collegato ai burocrati della Commissione Ue è “europass.eu/europass”. Ogni sito si propone d’aiutare i lavoratori a creare un proprio “Curriculum vitae” certificabile o un “Passaporto delle lingue” nel “formato europeo”. Gli europei sono veramente disposti ad ogni stratagemma pur di portare il pane a casa, così i Paesi membri dell’Ue hanno creato un “National Europass centre”, una struttura burocratica per fornire informazioni sui documenti Europass. Quello italiano è presso l’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della formazione professionale dei lavoratori): sul sito ci sono tante spiegazioni tecniche, ma del lavoro nemmeno l’ombra. Anzi, pare che gli unici sistemati siano gli addetti all’Europass. E non sembra che l’attuale classe politica pensi a fermare la valanga di obblighi alla “certificazione europea” che stanno abbattendosi sul Belpaese. Nessun lavoratore potrà sfuggire al curriculum certificato ed agli obblighi formativi, pena perdere il lavoro, autonomo o dipendente che sia.

In Italia, col passaggio di prerogative e competenze delle Camere di Commercio all’Ente programmatore (la Regione) è già decollata la pesca a strascico tra artigiani e commercianti. Ovvero la caccia, con il supporto dell’Ispettorato del lavoro, ad artigiani e commercianti non in regola con gli obblighi formativi. In pratica verrebbero equiparati agli abusivi, così scatterebbero sanzioni e chiusure d’opifici. Quelli dell’Europass sostengono che queste regole dovrebbero aumentare la qualità del lavoro, la trasparenza dei titoli e “la comunicazione tra chi cerca e chi offre lavoro”. Ma chi ha un negozio di ferramenta a Roma o nel Sud Italia potrebbe aprirsi anche una rosticceria a Parigi e Strasburgo? Ridiamoci sopra che è meglio. L’obbligo al curriculum certificato pare debba scattare proprio per tutti, dal contadino al salumiere, dal meccanico allo sfasciacarrozze, dal ciabattino allo spazzino. Da Europass garantiscono che è gratuito presso le strutture abilitate alla certificazione, soprattutto che serve “per avere sotto controllo la promozione della propria figura professionale”. Sono proprio “tempi moderni”.

Certo, il dopo pandemia ci regala un mercato del lavoro ancora più inasprito dalle disuguaglianze intergenerazionali e l’esclusione sociale entra come il cavolo a merenda in tutti i dibattiti. Tra un decennio l’80 per cento della popolazione potrebbe gravitare nell’esclusione sociale, soprattutto eserciti e polizie servirebbero solo per difendere il potere dai derelitti, dagli indigenti. Oggi nessun politico sembra abbia sufficienti parole (o coraggio) per ammettere che il 60 per cento della popolazione non è più inseribile lavorativamente. Nemmeno regge più la storia dell’investimento congiunto in politiche educative ed industriali, per generare da un lato risorse formate in modo adeguato e dall’altro domanda di lavoro altamente qualificato. Lo Stato ha persino abdicato al proprio ruolo nell’investimento sociale, reputando giusto tagliare orizzontalmente risorse dalla cultura alla formazione: la ricetta “meno laureati più lavoro per tutti” ci sta portando ad una società sul modello della periferia indiana, tanti poveri disposti a lavorare per poco o nulla.

In questa direzione vanno tutte le leggi nazionali che recepiscono la “sharing economy” (lavoro in affitto, tanto caldeggiato dall’Unione europea): tutta la forza lavoro in milioni di sciuscià, precari del delivery, sfruttati sorridenti.


di Ruggiero Capone