Cassa del Mezzogiorno: politica della portualità e Stato “incapace”

mercoledì 3 febbraio 2021


Agli inizi degli anni ’70 la Cassa del Mezzogiorno ritenne opportuno riconoscere alla Sardegna e alla Sicilia il ruolo di due grandi piastre logistiche nel Mediterraneo e alla fine degli anni ’60 ipotizzò la nascita di un porto canale a Cagliari, che nel 1967 ottenne dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) un primo stanziamento di 270 miliardi di lire e tutto avvenne anche attraverso la costituzione di una Società controllata dall’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), la Siaca e nel 1974 cominciarono i lavori; in Sicilia invece la Cassa del Mezzogiorno seguì, sempre in quegli anni, l’avvio dei lavori dei porti di Termini Imerese, di Pozzallo e di Augusta. Mentre sempre la Cassa del Mezzogiorno fu artefice di tutte le evoluzioni funzionali del porto di Gioia Tauro: agli inizi degli anni Settanta; per una non facile situazione politica determinatasi in Calabria, l’area costiera della Piana di Gioia Tauro venne designata come sito adatto per ospitare il polo siderurgico di Reggio Calabria.

La crisi della siderurgia fece naufragare il progetto del centro siderurgico. L’area di Gioia Tauro venne in seguito designata come sede di una nuova centrale elettrica dell’Enel a carbone anch’essa mai realizzata. L’area portuale interessata dai lavori, incompleti, fu infine ridestinata a grande porto commerciale dopo un interessante lavoro di analisi dei possibili fruitori condotto, sempre dalla Cassa, agli inizi degli anni ‘90, in seguito anche al convinto interesse del fondatore del Gruppo Contship Italia, Angelo Ravano. Di queste tre iniziative l’unica che possiamo ritenere vincente è quella del porto di Gioia Tauro ma è utile conoscere le motivazioni che non hanno assicurato un adeguato successo alle scelte portuali in Sardegna ed in Sicilia.

Per quanto concerne il porto canale di Cagliari è bene ricordare che, per il periodo in cui era nata una simile idea, sicuramente avrebbe ottenuto un grande successo: era e sarebbe rimasto per sempre in termini di ubicazione il miglior Hub transhipment del Mediterraneo e avrebbe potuto raggiungere in pochi anni una movimentazione di 2-3 milioni di Teu (l’unità equivalente a container lunghi venti piedi). Vivendo in un Paese come il nostro, la Cassa sottovalutò l’assenza di un riferimento forte a scala nazionale nella difesa delle scelte compiute dall’organo centrale: infatti immediatamente la città di Livorno riorganizzò il suo impianto portuale, demolendo addirittura interessanti villini liberty adiacenti alle aree portuali e offrì, in pochissimo tempo, al mercato della logistica una piastra container che già nel 1975 riuscì a movimentare oltre 600mila Teu.

Agli inizi degli anni ’80, sempre la Cassa del Mezzogiorno, ritenne che il porto di Augusta e quello di Pozzallo per la loro ubicazione geografica (primi scali portuali all’epoca della Unione europea nel Mediterraneo) potessero diventare ottime piastre container e sempre in quegli anni con il progetto italo-greco prese corpo anche il lancio dello scalo portuale di Taranto non solo come piastra logistica a supporto del centro siderurgico, ma anche come ottima piastra transhipment. Quindi Cagliari, Pozzallo-Augusta, Gioia Tauro e Taranto rappresentano quattro intuizioni davvero lungimiranti e, addirittura, quella del porto canale di Cagliari, per gli anni in cui era stata concepita e per la rilevanza strategica che l’isola avrebbe ricoperto nell’intero bacino del Mediterraneo, possiamo definirla la più forte perché anticipava possibili piani portati avanti dalla Francia con il porto di Fos e dalla Spagna con gli impianti portuali di Valencia e di Algeciras.

Poi negli anni ’90 l’Italia, pur disponendo di un Piano generale dei trasporti che con una apposita norma aveva identificato solo 7 (sette) sistemi portuali e che quindi evitava la nascita di proposte impossibili o concorrenziali fra loro, assistette ad una vera esplosione di pianificazioni autonome di oltre 20 realtà portuali. Esistono, sempre risalenti a quegli anni, studi di fattibilità di grandi società di ingegneria e di logistica che dimostravano per ogni singola realtà portuale una movimentazione iniziale di un milione di Teu e nell’arco di un triennio di oltre tre milioni di Teu. Eravamo in realtà spettatori di un grande paradosso davvero incredibile: negli anni ’90 nell’intero Mediterraneo si movimentavano circa 15-20 milioni di Teu e, secondo le previsioni fatte dalle varie Società di pianificazione, i porti italiani sarebbero stati pronti a riceverne oltre 40 milioni di Teu.

Nel 2020 il totale dei Teu complessivamente imbarcati e sbarcati in giro per lo Stivale è stato di circa 10,5 milioni di Teu (vedi tabella), di cui poco più di 3 milioni di Teu presso il porto di transhipment di Gioia Tauro. Nel 2019, secondo i dati ufficiali di Assoporti, il totale dei traffici container nei porti italiani era stato di 10.770.017 Teu, di cui 3.572.042 di transhipment e 7.197.975 container in import/export. Una prima considerazione da fare è quella che tutto sommato i volumi di merce containerizzata (in Teu) nell’anno appena trascorso sembrano aver tenuto nel nostro Paese, nonostante la crisi economica innescata dalla pandemia di Covid-19.

 

Posso quindi concludere che la Cassa del Mezzogiorno aveva cominciato negli anni Settanta a costruire una strategia che oltre ad essere, come detto prima, lungimirante aveva anche una finalità legata ad una esigenza del Paese ed in modo particolare del Mezzogiorno: amplificare al massimo le rendite di posizione delle portualità del Sud. Ebbene, oggi dopo quasi mezzo secolo, facendo un bilancio scopriamo che l’Italia movimenta in tutto circa 10 milioni di Teu e il porto del Pireo ne movimenta circa 5,7 milioni, quello di Valencia 5,4 milioni e quello di Algeciras 5,1 milioni. In realtà in soli tre impianti portuali si movimentano oltre 15 milioni di Teu.

Questo triste bilancio ci conferma ancora una volta quanto sia mancata, soprattutto, in questi ultimi anni una strategia dello Stato nella definizione delle articolazioni funzionali e nella gestione della nostra offerta portuale. Sulla base di tali risultati, tutti dobbiamo fare autocritica. Infatti una politica portuale non si inventa in un anno o in un lustro, per questo ho ritenuto utile effettuare un’analisi sintetica del passato per fare emergere i limiti e le responsabilità di chi direttamente o indirettamente ha gestito o non ha gestito in modo adeguato un comparto che era ed è il motore della crescita. Infatti il trasporto marittimo continua a rappresentare il principale “veicolo” dello sviluppo del commercio internazionale: il 90 per cento delle merci viaggia via mare. I trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12 per cento del Pil globale.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole


di Ercole Incalza (*)