lunedì 12 ottobre 2020
Per anni ha spopolato una battuta di Giorgio Gaber sull’igiene personale. Per l’autore del teatro-canzone la doccia era di sinistra, il bagno nella vasca di destra. Oggi la politica è pronta a impiccarsi all’ennesimo, grottesco, tormentone: la difesa dell’ambiente è di destra o di sinistra? Ma che razza di domanda è? Si vede che c’è in giro gente che ha tempo da dedicare alla stupidità. Chi vorrebbe che la natura venisse distrutta se non un piromane?
Il punto sul quale una distanza tra destra e sinistra sia misurabile semmai è un altro. Posto che la difesa dell’ambiente appartenga al paradigma di società evoluta, come si coniuga con il perseguimento dello sviluppo economico? Già, perché a tutti piacerebbe vivere in un mondo totalmente ripulito dall’inquinamento, a patto che resti un mondo antropizzato. Se, invece, per servire la pur giusta causa dell’ambientalismo si finisce per avere eserciti di disoccupati destinati alla fame e alla miseria, a chi sta male importa un fico secco la preservazione dell’habitat naturale.
Finora la questione è stata tutta ideologica, con la sinistra che ha cercato di mettere il cappello sull’ambientalismo criminalizzando il nemico politico. La solita prassi falsificatoria insegnata nelle scuole di partito dei comunisti per screditare gli avversari. Spariti i bolscevichi sono rimasti in circolazione gli appunti su cui ha studiato la nuova sinistra radical-chic della Ztl (Zona a traffico limitato). I cattivi, quelli di destra, sono rimasti fedeli, seppure con qualche inciampo, al principio che le produzioni, a cui sono connessi i posti di lavoro oltre che i profitti dei produttori, siano la priorità per gli indirizzi strategici dello Stato. Una sana idea che, riguardo alla compatibilità ambientale, andrebbe precisata colpendo gli abusi e i comportamenti irresponsabili e sostenendo, con aiuti economici, la transizione ecologica di quei settori dove passare da una produzione di tipo tradizionale a una “green” non comporti la distruzione della produzione stessa. Ma ci si è messa di mezzo l’Europa.
È di questi giorni il voto al Parlamento europeo per il mandato negoziale sulla legge europea sul clima. Il quadro normativo che le istituzioni dell’Unione dovranno costruire prevede di fissare al 2050 l’obiettivo del raggiungimento della neutralità climatica all’interno dell’Ue. Cioè, “tutti i singoli Stati membri devono diventare neutri sotto il profilo delle emissioni di carbonio”. La Commissione europea dovrà, entro il 2023, predisporre una tabella di marcia che fissi degli step: una riduzione delle emissioni del 60 per cento entro il 2030, la graduale eliminazione entro il 2025 di tutte le tutte le sovvenzioni dirette e indirette ai combustibili fossili e una valutazione d’impatto che consenta di fissare una nuova riduzione delle emissioni al 2040. Bellissimo, a chiacchiere. Ma come si traduce nella sostanza? Il made in Italy si poggia su una gamma di produzioni, in particolare nell’agroalimentare, che non possono essere azzerate se non con la scomparsa delle produzioni stesse? Un esempio. Da uno studio del dottor Dario Caro e del professor Simone Bastianoni del gruppo di Ecodinamica dell’Università di Siena, in collaborazione con i professori Ken Caldeira (Stanford University) e Steven Davis (Università della California) si apprende che il 74 per cento delle emissioni mondiali di gas che provocano l’effetto serra sia causato dai bovini i quali rilasciano nell’atmosfera grandi quantità di metano e protossido di azoto. Il problema tocca da vicino l’Italia. Nel 2017 il consumo rilevato sul mercato interno di carni, di latte e prodotti caseari derivati è stato del 25 per cento dei consumi agroalimentari domestici (Fonte: Ismea-Nielsen). Sempre nel 2017, l’Italia è stata il quarto esportatore europeo di formaggi e latticini, con il 13 per cento del valore delle esportazioni dell’Ue a 28 (Ismea – Rapporto sulla competitività dell’agroalimentare italiano). Nel 2019 la produzione di Formaggio Parmigiano Reggiano e Grana Padano è stata di 349.149 tonnellate; di Gorgonzola per 60.309 ton.; di Asiago, Montasio, Caciocavallo, Ragusano per 28.307 ton.; nel 2018 di Provolone per 6.159 ton. (fonte: Clal – Rapporto fra produzione ed export di formaggi). L’export di prodotti delle industrie lattiero-casearie (3,4 miliardi di euro - 10%) e delle carni lavorate e conservate (3,3 miliardi di euro - 9%) nel 2018 ha cubato circa il 20 per cento della filiera dell’agroalimentare per l’export (34,4 miliardi di euro) (fonte dati: Istat).
Se nel 2020 i numeri sono crollati è colpa della pandemia, cessata la quale il comparto produttivo potrà tornare a correre collezionando nuovi record sulla bilancia commerciale. Ma per produrre eccellenti formaggi e squisite bistecche occorre che si allevino bovini. Ora, di là dagli altisonanti proclami degli organismi comunitari, come si pensa di salvaguardare la zootecnia italiana dal rischio di finire sulla graticola della transizione verde? Si ricomincia con la politica degli incentivi per abbattere i capi di bestiame? Si torna alle micidiali “quote latte” e alle supermulte per i trasgressori? Cosa tramano a Bruxelles? Se fosse qualcosa di simile alle norme in danno del comparto della pesca che hanno ammazzato tante imprese italiane del settore, è bene che le belle parole sull’ambiente le vadano a spendere da qualche altra parte, che gli italiani ne hanno abbastanza di grandi strategie finite in solenni fregature.
Anche sull’utilizzo delle fonti energetiche non rinnovabili bisognerebbe fare un ragionamento sensato. Nel 2017 il trasporto di merci su strada in Italia è stato di 106,7 ton/Km (fonte: Eurostat). Se dovessero intervenire provvedimenti punitivi per questo segmento della mobilità, con sovrattasse e abolizione degli indennizzi compensativi sul consumo di carburanti, una delle principali infrastrutture a servizio del sistema produttivo nazionale andrebbe in crisi con incalcolabili danni all’export e ai consumi interni. Con gli esempi si potrebbe andare avanti a lungo. Ciò che conta rimarcare è l’inaccettabile metodo di lavoro delle istituzioni europee che per costruire la casa comune cominciano dal tetto anziché dalle fondamenta. Prima di dispensare norme assurde piacerebbe conoscere quali siano le reali intenzioni dei padroni del vapore per il futuro dell’Europa; cosa s’intenda sacrificare in nome della transizione ecologica e cosa no. E, ci domandiamo, chi dovrà tra i 27 Paesi membri pagare il conto più salato? Si fa come con le sanzioni alla Russia? Il gasdotto Nord Stream sta ancora lì che pompa combustibile alla Germania dalla “Russia con amore” e a fine anno un altro se ne aggiungerà mentre i nostri agricoltori sono in crisi nera grazie alla politica europea delle sanzioni. E poi, il timing della transizione ecologica.
All’Occidente avanzato sono occorsi tre secoli di progresso scientifico e tecnologico per arrivare al punto in cui è. Come si può pensare di convertire una civiltà in trent’anni, a meno che non si abbia intenzione di distruggerla? Vorremmo che i nostri politici, invece di sfidarsi a chi sia più green, si preoccupino di scoprire i piani europei per il futuro dell’Italia. Non vorremmo che nel nostro destino vi fosse un mega hot-spot per immigrati e, nei posti più caratteristici, una stazione turistica per i ricchi vicini. Su una cosa siamo d’accordo con la sinistra: amministrare la tentacolare società post-industriale significa governare la complessità. Una regola però non è cambiata dagli albori della Storia: in un contesto umano aggregato c’è qualcuno che comanda e ci sono gli altri che subiscono gli effetti del comando. In Europa, l’Italia da quale parte del trono è collocata? Conosciamo, ahinoi, la risposta. E poi dicono che uno diventa euroscettico.
di Cristofaro Sola