Il baratro fiscale di giugno

giovedì 30 aprile 2020


Nel 2012, durante il Governo Monti, serpeggiava in tutto lo Stivale il desiderio d’aderire alla rivolta fiscale, al non pagare tasse, imposte, tributi e balzelli vari. Ovviamente questo sentire era minimo comun denominatore nel cosiddetto “Partito delle partite Iva”.

La Cna di Mestre nel 2012 segnalava che moltissimi italiani, causa crisi economica, non sarebbero riusciti ad adempiere alle scadenze fiscali. Tra il 2012 ed il 2013 la percentuale d’imprese che non pagava le tasse per mancanza di liquidità oscillava tra il 10 ed il 12 per cento.

Nel 2020, circa il 10 per cento delle imprese non ha ancora visto la fine dalla crisi finanziaria iniziata un decennio fa, a queste si somma l’altro 30 per cento d’attività e professioni che, causa fermo da coronavirus, non ha la disponibilità finanziaria per adempiere alle scadenze perentorie di giugno. Scadenze a cui s’andranno a sommare le circa 18 milioni di cartelle esattoriali che l’Agenzia delle Entrate metterà in consegna (telematica via pec o per raccomandata) dal primo giugno 2020. Scadenza perentoria ed indifferibile, come lo stesso direttore dell’Agenzia delle Entrate ha dichiarato in audizione alla Camera, rammentando al Governo Conte che, misure che procrastinino i pagamenti confliggerebbero con obblighi di bilancio e con tutta una serie di impegni europei. Ma come si coniugano le perentorietà fiscali con la visione asfittica della società che ha questo governo? Visione che tocca vette inusitate con la criminalizzazione del lavoro che, dal nobilitare l’uomo, assurge a “primo fattore d’inquinamento ambientale”? Il cosiddetto fattore antropico, che secondo gli antilavoristi di 5 Stelle favorirebbe la morte del Pianeta. Senza considerare che, per certi consulenti di Conte il lavoro è solo  un “momento di diffusione del patogeno”, una forma d’egoismo.

Ad aprirci gli occhi su questa Fase 2 sono sempre le statistiche della Cna (in questo caso di Roma), che ci dimostra che da maggio mancheranno all’appello nella Capitale circa 27 mila tra negozi e botteghe di commercianti e artigiani. Un deserto che, numeri alla mano, potenzierà in parte (considerando le diminuite possibilità economiche) la grande distribuzione. Nella sola Capitale perderanno il lavoro più di 800mila addetti nei settori artigianale e commerciale: ovviamente quelli censibili perché in regola contrattualmente, a cui s’aggiungeranno altrettanti rivenienti da lavori abusivi. Roma subirà un impoverimento del tessuto sociale, e perché si spegneranno vetrine e non ci saranno bancarelle. Le storiche piccole botteghe tireranno finalmente le cuoia, con gran goduria per chi da anni predica la razionalizzazione delle attività e l’accorpamento commerciale. La Cna non lascia scampo, chiuderanno a Roma 2500 ristoranti e 2300 bar. Il crollo del fatturato per chi resisterà è valutato intorno al 70 per cento. Chiudono anche 430 tra rosticcerie e paninoteche da asporto, che hanno calcolato non riuscire a far quadrare i conti nemmeno con le possibilità fissate dalla Fase 2. Circa 400 tra gelaterie e pasticcerie chiuderanno Partita Iva ed iscrizione camerale già a maggio. La Confesercenti romana ha anche calcolato un crollo di due miliardi di euro degli incassi di ristoranti e bar per il 2020. E la via del tribunale fallimentare è già spianata per più di 450 alberghi romani. Il centro storico di Roma si svuoterà, e forse qualche negoziante si ridimensionerà spostandosi in qualche periferia densamente popolata.

Una vittoria per molti che da anni combattono il grande pulviscolo del dettaglio commerciale ed artigianale. La criminalizzazione del lavoro parte dall’idea comunista dei primi anni ’60 (non certo marxista, il filosofo di Treviri non l’asseriva) che un giorno saremmo stati tutti in uguali case senza lavorare, che per noi avrebbero fatto tutto i robot, e che questo avrebbe fatto cessare il bisogno. Di fatto l’idea d’un reddito mondiale di cittadinanza, oggi ricalibrata su una sorta di “povertà sostenibile”, ci vorrebbe parassiti dei computer, asociali e pronti a poltrire in anonime metrature in cemento armato. Un sogno triste che reputano aver realizzato grazie alla pandemia: per decenni non c’erano riusciti nemmeno con bolle e speculazioni finanziarie.

E l’inventiva italiana, la genialità, il merito, l’ambizione personale? Per certi non dovrebbero esistere queste pulsioni, perché non concepiscono che un lavoratore partecipi al destino ed al successo dell’impresa. Ma, se a capo dell’impresa ci fossero Vittorio Colao, Bill Gates, Soros od altri satrapi planetari, certi tribuni della politica non ravviserebbero la contrapposizione tra capitale e classi operaie e contadine. Così quel senso di lotta intestina, che corrode sin dal suo sorgere la società industriale (capitalista e finanziaria, strettamente confinata all’econometria), verrebbe eliso solo se a capo dell’impresa  ci fosse un sofista collegato al “Nuovo Ordine mondiale”. Chi non fa parte del salotto multinazionale, subisce sempre la regola della distruzione della “cultura del lavoro”, costante degli ultimi decenni.

Nonostante tutto, un 30 per cento degli italiani pagherà regolarmente Imu, Tasi, Tari… e tutte le imposte in scadenza. Circa un 20 per cento usufruirà del “ravvedimento operoso”.

L’incognita potrebbe risiedere in quel 50 per cento che, tra voglia di rivolta fiscale ed impossibilità a versare le tasse, starebbe spalancando il baratro d’un collasso del sistema tributario. In quel preciso momento, il presidente della Repubblica prenderà coscienza delle fallimentari politiche di Conte e bella compagnia.


di Ruggiero Capone