“Decreto liquidità”: attenzione al boccone avvelenato

mercoledì 15 aprile 2020


La Commissione europea ha dato il via libera al cosiddetto “Decreto liquidità” (Decreto legge n° 23/2020) con cui il Governo, per far fronte alle gravi conseguenze economiche causate dall’emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19 e dal conseguente lockdown e in particolare per sostenere la liquidità delle imprese messe in crisi dal crollo dei fatturati e dalla difficoltà di riscossione dei crediti, ha previsto un sistema di garanzie pubbliche sui prestiti concessi da banche, istituzioni finanziarie ed altri soggetti abilitati all’esercizio del credito, attraverso l’intervento di Sace spa per le imprese medio grandi nonché per quelle medio piccole, lavoratori autonomi e liberi professionisti titolari di Partita Iva, che abbiano pienamente utilizzato la loro capacità di accesso al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese.

La pronta emanazione da parte dell’Associazione bancaria italiana di un’apposita circolare esplicativa consente sin d’ora l’avvio delle pratiche presso gli istituti, anche se per l’effettiva erogazione dei finanziamenti oltre i 25mila euro occorrerà attendere i regolamenti e le indicazioni di Sace e Fondo di garanzia, e per quelli alle imprese di maggiori dimensioni (quelle con fatturato superiore a 1,5 miliardi o con più di 5mila dipendenti) l’approvazione di un apposito decreto del ministro dell’Economia. Ebbene, quali che siano le tempistiche, prima di attivarsi per la richiesta, è opportuno che i potenziali beneficiari, valutino con attenzione i vincoli che la legge pone a loro carico una volta che avranno ottenuto il previsto finanziamento garantito da Sace.

In particolare, occorre porre molta attenzione a quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, lettera l) del Decreto liquidità: “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. Per quanto la norma si presenti generica e gravemente imprecisa, sollevando un complesso di interrogativi di non facile soluzione, nei sui termini essenziali il precetto è chiaro: l’impresa che accede al finanziamento rinuncia al potere di licenziare unilateralmente i propri dipendenti per ragioni economiche. In altre parole, qualora intenda effettuare una riduzione di personale, anche di una sola unità, il datore di lavoro dovrà ottenere il nulla osta del sindacato che, come esperienza insegna, è poco probabile possa mostrarsi particolarmente aperto e disponibile al riguardo. Sotto il profilo politico, non può non rimarcarsi l’assoluta inopportunità della previsione, al contempo irritante, costituzionalmente disarmonica e irrazionale.

Irritante perché appare con tutta evidenza figlia di una sempre più pervasiva e corrosiva ansia di moralizzazione, laddove la morale, si sa, è per definizione appartenente alla sfera delle convinzioni personali e mai dovrebbe fare ingresso nelle sedi dove si formano le leggi. Costituzionalmente disarmonica in quanto assegna al sindacato un inedito potere di incidere sulle scelte dell’impresa, ignorando il principio sancito dall’articolo 41, secondo cui l’iniziativa economica privata, libera col solo limite che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e con ciò alterando la geometria degli equilibri fra capitale e lavoro disegnata dai padri costituenti.

Priva di razionalità, perché legare per il futuro le mani ad imprenditori già sottoposti a forte stress economico-finanziario, per di più per un periodo di tempo potenzialmente non brevissimo (fino a sei anni), imponendo vincoli organizzativi ulteriori rispetto a quelli (assai stringenti) già esistenti, rischia di compromettere il conseguimento degli obiettivi di fondo che la legge, a parole, si propone: “contenere”, per le imprese, “gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica Covid-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale” e quindi favorire la ripresa delle attività ed evitare il rischio di chiusure definitive. Come può – vi è da chiedersi – un’impresa già oggi in difficoltà, con davanti scenari inediti e un futuro incerto, impegnarsi per gli anni a venire a mantenere i livelli occupazionali? O (che più o meno è la stessa cosa) ad adottare ogni decisione organizzativa in accordo col sindacato? Anche passando al piano tecnico giuridico le criticità che emergono sono numerose, al punto da rendere la norma così enigmatica che per la sua interpretazione andrebbe invocata l’opera di un chiromante più che quella di un giurista. Mi limiterò qui a segnalarne solo alcune, le più rilevanti.

Innanzitutto, la legge non stabilisce la durata del vincolo, che dunque dovrebbe coincidere con quella del finanziamento, con potenziale estensione fino a sei anni, né quali siano i “livelli occupazionali” di riferimento: quelli al momento dell’entrata in vigore del decreto, della richiesta di finanziamento, della sua erogazione, o addirittura quelli man mano raggiunti in seguito, così che si potrà andare solo in avanti e mai indietro? In secondo luogo, non viene specificato quale sia il soggetto abilitato a sottoscrivere gli “appositi accordi”, né il livello di questi ultimi. Si può immaginare che lo strumento più adatto sia il contratto aziendale, stipulato dalle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa o Rsu) o, in mancanza di queste, un accordo con le organizzazioni sindacali a livello provinciale. Ma un chiarimento sarebbe opportuno. Così come sarebbe bene precisare se l’accordo possa essere concluso con qualunque sindacato o solo con quelli comparativamente più rappresentativi.

E ancora: non è chiaro in che modo la previsione debba raccordarsi con le regole procedurali vigenti in tema di licenziamenti collettivi (articolo 4, 1egge n° 223 del 1991) o di licenziamento per motivo oggettivo nelle imprese medio grandi cui si applichi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (articolo 7, 1egge n° 604 del 1966). I licenziamenti saranno validi solo laddove in sede di procedura sindacale (articolo 4, legge 223/1991) o davanti all’Ispettorato del lavoro (articolo 7, legge n° 604/1966) venga raggiunto un accordo (che entrambe le leggi peraltro configurano come eventuale)? Non si tratta di questioni di poco conto dal momento che, trattandosi di una norma imperativa, la sua violazione comporta la nullità del provvedimento adottato. Il che, in altri termini, significa che, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, a prescindere dal regime di tutela applicabile, si vedrà applicata la sanzione più grave (reintegrazione e pagamento di tutte le retribuzioni e di tutti i contributi pregressi).

Senza contare che, trattandosi di una norma che assegna uno specifico diritto al sindacato, quest’ultimo, se by-passato, potrebbe anche avvalersi della procedura di repressione della condotta antisindacale prevista dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori (ancora una volta con gravi conseguenze per l’impresa). Infine, “gestione dei livelli occupazionali” è termine estremamente generico e astrattamente idoneo a comprendere operazioni della più varia natura. Che dire di una cessione di un ramo d’azienda? O della scelta di non partecipare alla gara di appalto per il rinnovo di una commessa? O della decisione di richiedere l’intervento della Cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria o l’attivazione della solidarietà? O finanche (perché no?) del ricorso alla somministrazione di lavoro o dell’assunzione di lavoratori stagionali? Non si tratta forse di operazioni che impattano sui i livelli occupazionali?

In conclusione, sperare in un passo indietro e in un’eliminazione della previsione forse è eccessivamente ottimistico (il furore ideologico dei nuovi crociati appare troppo saldo), ma almeno un intervento chiarificatore, casomai sulla scorta del consiglio di qualche esperto, in sede di conversione è il minimo che è lecito attendersi: evitiamo alle imprese, già in difficoltà, inutili lacci e l’ulteriore carico rappresentato dall’incertezza del quadro regolatorio.

(*) Professore ordinario di diritto del lavoro dell’Università di Modena e Reggio Emilia


di Giuseppe Pellacani