venerdì 3 aprile 2020
Se non siamo del tutto impazziti, si deve assolutamente intervenire per difendere il nostro tessuto sociale e produttivo, iniettando denaro, garantendo il credito attraverso strumenti dello Stato. Bene, benissimo, ha fatto il viceministro dello Sviluppo Economico Stefano Buffagni a denunciare le indicazioni di disinvestimento della Commerzbank, quarta banca tedesca, partecipata dallo Stato al 15 per cento, che suggerisce la vendita di titoli italiani secondo l’aspettativa di aumentati rischi di default o di downgrading dell’Italia a causa del Coronavirus. Non è stato il solo, ma a dir il vero è stato il primo e la sua iniziativa è stata ripresa soprattutto dalle opposizioni, fatto questo che dovrebbe far pensare.
Difendere l’Italia è in questo momento doveroso da parte di tutte le forze politiche e se anche lo si fa con armi spuntate, aprendo le braccia contro il vento, come ha fatto Buffagni, è cosa apprezzabile e che avrebbe dovuto avere più braccia aperte, più fitte, più convinte. Intendiamoci, Commerzbank può fare tutte le indicazioni che vuole, è anche il suo mestiere, ma c’è una certa differenza fra dare indicazioni riservate al proprio interno, o anche ai propri clienti, e farne una bandiera sventolata sui mezzi di informazione specialistici come Bloomberg, soprattutto quando si è ancora controllati o partecipati, ma comunque sovvenzionati, da uno Stato come la Germania sul cui comportamento, in questo momento storico, è lecito nutrire almeno qualche perplessità. E lo scrive il sottoscritto che non si è mai allineato alla canea anti-teutonica che in questi giorni si può trovare su qualsiasi mezzo di informazione.
Intanto, i report di Commerzbank non hanno, mentre scriviamo, inciso più di tanto sullo spread Btp-Bund che, sì, è cresciuto, ma in una proporzione tale da far pensare che non si sia innescata la valanga di vendite che avrebbe dimostrato un consenso della comunità finanziaria internazionale verso un downgrading dell’Italia. Rimane comunque un importante campanello d’allarme, una nube scura che si addensa sopra la nostra economia ed in particolare sui nostri conti pubblici. Vale la pena ricordare che i nostri rating attuali sono al limite della dichiarazione di “junk” (spazzatura), aggettivo poco onorevole che viene attribuito ai titoli emessi da quelle economie ritenute non in grado, o poco in grado, di onorare i debiti emessi, sia in forma di cedole che di rimborso dei valori nominali.
Un aggettivo del genere è tale da impedire l’acquisto dei titoli da parte di istituzioni finanziarie a bassa propensione al rischio (i governi, le banche centrali, i fondi pensione, quasi tutti insomma), a far lievitare i tassi e, di conseguenza, aumentare la spesa per interessi sul debito che per noi italiani, con un rapporto Debito-Pil superiore al 135 per cento, rappresenterebbe un macigno tale da portare inevitabilmente ad una riduzione della spesa per Welfare e sanità e ad un blocco della spesa per investimenti per chissà quanti anni. Il nostro rapporto Debito-Pil, comunque vadano le cose, è destinato a crescere, sia per incremento del numeratore che per crollo del denominatore, ma c’è modo e modo. Sono in tanti a valutare tale incremento con stime che si attestano fra il 150 e il 160 per cento, considerando le più equilibrate. È inevitabile perché, se non siamo del tutto impazziti, si deve assolutamente intervenire per difendere il nostro tessuto sociale e produttivo, iniettando denaro, garantendo il credito attraverso strumenti dello Stato.
Per il momento questo non si sta facendo e si stanno eseguendo altre cose, come inserire in questa continua decretazione d’urgenza provvedimenti di comodo che niente c’entrano col Coronavirus, ma molto con una gestione dell’economia di cui prima o poi si chiederà conto. Il riferimento è, oltre che alla proroga di due anni concessa all’Agenzia delle Entrate per i controlli, all’ennesimo salvataggio di quel pozzo senza fondo che è diventata Alitalia o addirittura provvedimenti tipo il divieto di portabilità del numero fisso in caso di cambio di operatore telefonico, provvedimento di cui non si capisce la ratio e la connessione con la pandemia, ma si capisce benissimo la natura di blocco della concorrenza di settore a discapito dei consumatori e delle aziende concorrenti.
Attenzione, questi “panni sporchi” non rimangono in famiglia, sono anche questi segnali che vengono colti all’esterno. Come vengono colti i clamorosi flop nel far arrivare i soldi ai cittadini in difficoltà e alle aziende, altro elemento che fa scommettere sul fallimento delle stesse e, con esse, data l’atomizzazione e la piccola o minuscola dimensione delle nostre aziende, la chiusura di interi comparti. L’immobilità del nostro sistema farraginoso è nota ed è uno dei limiti maggiori, insieme alla pressione fiscale, agli investimenti dall’estero, oltre che a quelli interni. Il problema di fondo da risolvere è, quindi, quello della cronica debolezza dell’economia italiana. Una debolezza radicata proprio nell’eccessivo debito pubblico, troppo spesso utilizzato per spesa improduttiva e sussidi vari, nella burocrazia asfissiante, in un cuneo fiscale abnorme che impedisce un serio livello di investimenti in risorse umane nel lungo periodo, premessa per generare sviluppo di competenze, professionalità e produttività, vere fondamenta di un sistema produttivo ed economico solido.
Sono questi i segnali che dobbiamo dare all’estero, segnali di solidità, di riforme strutturali e durature. Così si è percepiti più forti e in grado di far fronte ai debiti dello Stato, e con caratteristiche del genere un rapporto come quello della Commerzbank sarebbe caduto nel ridicolo. Invece, siamo costretti a prenderlo sul serio. Si dirà che non è questo il momento di affrontare questi problemi, siamo in emergenza, c’è il Coronavirus!
Cari lettori, in Italia siamo sempre in emergenza, quindi questo è un non-argomento. Intanto, oltre che difenderci da questi attacchi dall’estero, cominciamo a far ripartire la nostra nazione. Costruiamo da subito dei percorsi per riportare le persone, le aziende alle loro attività in situazione di sicurezza o di ragionevole e massima riduzione del rischio. Anche un viceministro allo Sviluppo Economico giovane e con voglia di fare, possibilmente privo di troppi bastoni fra le ruote, potrebbe dare un grande impulso alla ripartenza dell’Italia.
di Alessandro Cicero