giovedì 3 ottobre 2019
A proposito di democrazia liberale, è bene che se ne discuta. Tuttavia sarebbe opportuno farlo tralasciando romantici ritorni di fiamma ottocenteschi, a cominciare dalla messa in discussione della natura dell’odierno capitalismo al quale il pensiero liberale è indissolubilmente legato. Se oggi gli istituti della democrazia occidentale si vedono minacciati dall’avanzata dei sovranismi, dei populismi e delle teorie sulla democrazia illiberale la principale ragione è il fallimento del modello capitalistico.
Dopo la caduta del muro di Berlino e il dissolvimento dello spauracchio sovietico l’economia di mercato non ha centrato l’obiettivo di far progredire l’umanità nel benessere, come pure i fautori del liberismo avevano pronosticato dovesse avvenire, garantendo al genere umano di progredire in pace e in prosperità. Al contrario, una volta cancellato il rischio della vittoria su scala globale dell’utopia comunista, la concentrazione capitalistica ha accresciuto il suo potere globale, aumentando la precarizzazione del lavoro, le disuguaglianze e provocando lo scivolamento nella povertà di segmenti significativi dei ceti medi produttivi tradizionali con il conseguente incremento del disagio sociale. È stata vulnerata la struttura portante del capitalismo, cioè la capacità di migliorarsi costantemente in virtù della libera concorrenza tra le imprese. Hanno preso piede opachi oligopoli che hanno conquistato rendite di posizione sfruttando la debolezza della politica e la corruttibilità dei politici. Cosicché a un ristretto numero d’individui è stato permesso di arricchirsi a scapito della stragrande maggioranza degli esseri umani. Ma non è scritto nelle Tavole della Legge che i popoli debbano subire passivamente le conseguenze della distorsione di un sistema in origine corretto e universalmente desiderabile. Sta nell’ordine delle cose la sollevazione degli sfruttati.
La crisi della globalizzazione è stato il campanello d’allarme suonato nelle stanze dei bottoni del capitalismo arrembante, neo-liberista e mercatista, perché provvedesse ad autoriformarsi prima che la reazione immunitaria delle comunità producesse efficaci anticorpi. Per enfatizzare il cambio di passo del capitalismo si potrebbe asserire che la Storia ha chiamato e le menti più brillanti del capitalismo occidentale hanno risposto. Colpa nostra se, presi dal teatrino estivo della politica politicante italiana, non ci siamo soffermati a osservare, come invece avremmo dovuto, ciò che stava accadendo.
Lo scorso 19 agosto il Business Roundtable, gruppo che raccoglie 200 grandi aziende statunitensi, le più grandi, ha diffuso una lettera-documento firmata da un elenco nutrito di top manager e intitolata: “Per un capitalismo migliore”. Si tratta di un’autocritica severa del modus operandi del nuovo capitalismo. È messo in discussione il dogma del profitto quale unico scopo dell’agire dell’imprenditore e del management aziendale. A fronte del rischio di essere travolta dalla marea montante delle contestazioni, declinate su scala locale e globale, la grande impresa transfrontaliera ammette le proprie responsabilità per gli squilibri generati e riconosce la necessità di considerare altri portatori d’interesse oltre agli azionisti. Lavoratori, fornitori, clienti, comunità territoriali delle aree geografiche di ubicazione degli impianti produttivi, nella nuova visione responsabile acquistano il ruolo di stakeholders. La consapevolezza che l’agire imprenditoriale produca effetti nella sfera giuridico-patrimoniale-ambientale di queste ed altre categorie obbliga l’impresa a non trincerarsi dietro il cieco perseguimento del profitto economico, ma di valutare una riconfigurazione della componente del valore su basi non strettamente monetarie. Qualcuno ha parlato di definitiva archiviazione della filosofia liberista di Milton Friedman e della “Scuola di Chicago”. In realtà, oltreoceano è stato aperto uno spiraglio allo sviluppo di una sostenibile Responsabilità Sociale d’Impresa (Corporate Social Responsibility).
Nel Vecchio Continente è da decenni che le istituzioni comunitarie provano ad incentivare l’applicazione di modelli virtuosi e best practices nella gestione delle imprese, con qualche raro risultato e molti inciampi. Ora, conta poco chi l’abbia pensata per prima, se si sia in presenza di una naturale evoluzione del capitalismo o invece si tratti di una mossa in autotutela del turbocapitalismo dopo decenni di abusi e predazioni, ciò che importa è che il modello d’impresa responsabile diventi la norma e venga messo a sistema in tutte le economie. Tanto in quelle del postfordismo, quanto in quelle dei Paesi emergenti. D’altro canto, che il capitalismo dovesse emendarsi dei propri eccessi perversi non è più soltanto l’aspirazione di qualche vox clamantis in deserto. Lo ha denunciato la scorsa settimana Martin Wolf, noto commentatore economico britannico, in un articolo dall’eloquente titolo: “Perché un capitalismo truccato sta danneggiando la democrazia liberale”, pubblicato sul Financial Times. Il columnist di Ft se la prende con la progressiva finanziarizzazione dell’odierno capitalismo rispetto alla tradizionale aspirazione manifatturiera. Il maggior danno rispetto all’economia reale? Per Wolf, il dirottamento di risorse e abilità umane in direzioni “inutili” per la società civile sottostante. Danni collaterali? L’ipertrofia del settore finanziario è un’incubatrice di crisi di sistema: la crescita accelerata abbassa i rendimenti. Gli investitori per garantirsi il rientro dei capitali devono assumere maggiori rischi. È il cosiddetto “effetto bolla” che esplode dopo essersi artificiosamente gonfiata. Il guaio però che a pagare il conto non sono gli speculatori finanziari ma la restante società civile. Ne sappiamo bene qualcosa noi, in Italia. Quante volte ci è capitato di assistere a quell’osceno gioco di potere per il quale grandi squali della finanza se la sono cavata privatizzando i profitti e socializzando le perdite? Il j’accuse di Martin Wolf non risparmia l’avidità dei top manager superpagati, del sistema drogato dei bonus, delle Stock options e di altre forme d’incentivo sproporzionate rispetto ai risultati di gestione ottenuti. Per Wolf anche l’ordinaria logica del profitto dell’impresa è stata superata. Oggi la stella polare dell’azienda “è il conto in banca di quelli che la gestiscono”. Il cahier de doléance di Wolf è lungo. E tutto condivisibile. La conclusione alla quale giunge il columnist di Ft è la stessa a cui pensiamo da tempo: una seria e convinta riforma del capitalismo dal suo interno. Per Wolf oggi ciò che fino a ieri poteva essere eresia è possibile perché è cambiato il clima e c’è un diverso zeitgeist. Vogliamo sperarlo. Tuttavia, la diffidenza verso le capacità auto-regolamentatrici del capitalismo è fortissima. Non vorremmo che l’improvviso interesse di top manager e timonieri di multinazionali, che finora non hanno disdegnato di fare tappa nei paradisi fiscali di tutto il mondo per sottrarre i loro immensi guadagni alla redistribuzione mediante la leva fiscale dei Paesi dai quali traggono profitti senza fine, si riveli un’ipocrita ritinteggiatura per rendere presentabile la facciata del loro business.
Neanche vorremmo che l’aspirazione a riconciliarsi con le comunità predate si riduca ad un acconciamento in vista di un altro lucroso affare sulle ali del refrain “salviamo il pianeta che sta morendo”. La tutela dell’ambiente va bene ma la trovata del Green New Deal puzza di fregatura a miglia di distanza. Non è che in nome della salute dei pinguini si delocalizzano le aziende, si digitalizzano i processi produttivi, s’incrementa l’automazione, si chiudono le linee di produzione meno performanti, si decuplicano i profitti e si licenzia la manodopera, senza che la proprietà tiri fuori il becco di un quattrino ma tutto avvenga a spese della collettività? Perché se così fosse, niente salverebbe la democrazia liberale dall’onda di piena della ribellione popolare. In Europa. E in Italia.
di Cristofaro Sola