lunedì 17 giugno 2019
I minibond già esistono. Ma non possono essere utilizzati per pagare i debiti della Pubblica amministrazione. Forse, nella foga di “italianizzare” tutto, qualcuno per convenienza vuole confondere i “minibond” con i mini bot. Per i non addetti ai lavori i minibond farebbero rima con i mini buoni del Tesoro. Peccato, però, che abbiano un valore del tutto diverso. I primi, sono strumenti di credito per promuovere gli investimenti e lo sviluppo. I secondi, invece, sarebbero la creazione di un’ulteriore e ingiustificata forma di liquidità per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, in verità già coperti da precedenti stanziamenti di bilancio. Basterebbero dei controlli più stringenti e il rispetto delle decisioni. Dei minibond si è parlato molto nel corso degli anni. Sono degli strumenti innovativi di finanziamento per le aziende non quotate in Borsa, in particolare per le Piccole e medie imprese, con un fatturato di oltre 2 milioni di euro, che hanno bisogno di capitali, di crediti e liquidità per sostenere i loro programmi di sviluppo e investimenti per la modernizzazione tecnologica e per l’espansione delle proprie attività e dei mercati, anche all’estero.
Inoltre, essi permetterebbero alle imprese di avere accesso anche al mercato dei capitali, in aggiunta a quello del credito bancario, un po’ troppo restrittivo. In altre parole, i minbond dovrebbero aiutare le imprese a produrre ricchezza reale, a far crescere il Pil e l’occupazione. Anche per creare stabilità economica e sociale e per abbattere l’oneroso fardello del debito pubblico. Purtroppo, finora, hanno avuto un limitato utilizzo, che nel 2017 non ha superato i 7 miliardi di euro. In passato si è parlato anche di eurobond, lo abbiamo fatto anche noi. Che sarebbero obbligazioni garantite in solido da tutti gli Stati membri della zona euro. Avrebbero un tasso d’interesse basso con effetti stabilizzanti rispetto al bilancio e rispetto alle eventuali pressioni dei mercati finanziari. Si creerebbe un mercato obbligazionario europeo unico di dimensioni sufficienti per impedire eventuali attacchi speculativi. Purtroppo, gli eurobond non sono mai partiti, anche per l’opposizione di alcuni Paesi europei (in primis della Germania), decisamente contrari alla mutualizzazione dei rischi derivanti dal debito pubblico degli Stati maggiormente indebitati. Comprensibilmente, le operose formiche non vorrebbero pagare per le cicale spendaccione, come racconta la fiaba.
In prospettiva, però, riteniamo che la soluzione di tale controversia resti la questione centrale per la realizzazione del progetto monetario europeo. Subito e a beneficio di tutti i Paesi dell’Unione europea potrebbe essere la realizzazione almeno di eurobond legati al project financing, cioè quelle obbligazioni necessarie per acquisire risorse indispensabili per investimenti nei settori delle infrastrutture, delle nuove tecnologie e della ricerca. Naturalmente, sarebbero strumenti a lunga scadenza utili per coinvolgere anche gli investitori istituzionali non motivati da logiche speculative e di breve periodo. In quest’ottica, si pone anche il Piano di investimenti per l’Europa che utilizza il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) per fornire una garanzia, basata sul bilancio dell’Ue, alla Banca europea degli investimenti (Bei) mettendola in grado di fornire finanziamenti a progetti in quantità molto maggiore di quanto farebbe normalmente.
Si ricordi che il Piano in questione, che adesso prosegue con il Fondo InvestEU aperto anche alla partecipazione di investitori privati, ha l’obiettivo ambizioso di disporre di 650 miliardi di euro entro il 2027 per investimenti in settori chiave quali quelli delle infrastrutture, dell’ambiente, dell’efficienza energetica, della tecnologia digitale, della ricerca, della sanità e dell’istruzione. I due obiettivi principali previsti sono l’innovazione e la creazione di nuovi posti di lavoro. A ciò si dovrebbe aggiungere l’impegno, oggi generalmente condiviso ma ancora non realizzato, di scorporare dal computo del deficit le spese per investimenti produttivi, la famosa “golden rule”. Argomento che abbiamo più volte sostenuto. Appare evidente che la realizzazione di simili idee avrebbe un effetto positivo sulla crescita economica e occupazionale dell’Unione europea e conseguentemente anche per un realistico abbattimento dei livelli del debito pubblico di alcuni Paesi.
A nostro avviso, questi sono i temi su cui l’Italia si deve concentrare nel dialogo politico e programmatico tra Roma e Bruxelles. Su queste questioni reali si possono anche tessere delle alleanze con altri Paesi interessati, che vanno da Atene a Berlino. Con la litigiosità, gli ultimatum e gli inutili confronti muscolari non si creano accordi né spazi per lo sviluppo. Intorno al nostro “interesse nazionale”, che in verità è anche “interesse europeo”, si possono gettare le basi per realizzare un effettivo bene comune.
(*) Già sottosegretario all’Economia
(**) Economista
di Mario Lettieri (*) e Paolo Raimondi (**)