Fuga dalle tasse e aziende all’estero

giovedì 21 luglio 2016


Lavorare pagando meno tasse è il desiderio di qualsiasi impresa o individuo. La delocalizzazione, però, comporta da sempre costi e limitazioni non sempre facili da gestire. Spostare un’intera fabbrica può essere conveniente nel lungo periodo, ma trasferire macchine industriali e ricostruire stabilimenti interi è un’operazione che comporta comunque un investimento di un certo peso.

Gli ostacoli, poi, non finiscono qui: la comunicazione, la gestione dei dipendenti e dei team, l’impossibilità di delocalizzare risorse che lavorano sullo stesso progetto e così via. Fino ad oggi. La tecnologia di questi ultimi due anni ha cambiato completamente gli strumenti aziendali di gestione del lavoro e potrebbe spingere sempre più imprese a delocalizzare, anche quelle che, fino ad oggi, vedevano troppi costi e troppi ostacoli nell’operazione.

Qualcosa infatti è cambiato. La ragione? Nuovi strumenti di gestione del lavoro. Facili, gratuiti, flessibili. Adatti alla multinazionale come anche alla microimpresa. Questi prodotti tecnologici sono esplosi tra il 2014 ed oggi, rivoluzionando completamente il modo di fare impresa. Se un tempo infatti, per lavorare, un dipendente aveva bisogno di (costosi) software installati con un Cd-Rom dall’amministratore dell’azienda, cavi collegati al suo pc per accedere ai documenti e ai dati, e addirittura quaderni o obliteratrici per segnare la presenza in ufficio, ora tutto questo è diventato obsoleto, costoso, inefficiente. Al posto di Cd-Rom sono comparsi i cosiddetti software in “cloud”, ovvero software che non richiedono installazione, leggeri come una “chat” di Facebook, a costi bassissimi e accessibili da tutto il mondo, da qualsiasi computer. Sono cambiati anche i sistemi di accesso ai dati aziendali: un tempo lunghi cavi collegavano i pc dei dipendenti a dei server “magazzino” di documenti virtuali, ora tutto questo è stato trasferito in altri spazi on- line, accessibili da ovunque, e da qualsiasi computer. Le riunioni sono diventate “video” e l’Ad può collegarsi anche dalla sua barca ai Caraibi.

Infine, sono cresciute le società convertite a sistemi di gestione del lavoro online: un insieme di strumenti che consentono a membri di un team di lavoro, di accedere ad una lavagna virtuale in cui sono assegnati ruoli, responsabilità, progetti. Una lavagna in cui è possibile commentare, allegare file, segnalare date di scadenza, segnalare compiti per il collega. Sistemi che hanno dimezzato scambi di email, telefonate e, soprattutto, riunioni, ovvero un altro importante vincolo di “presenza fisica”.

Il lavoro è quindi sempre più delocalizzato, complice anche la tendenza dello “smart- working” - ora regolamentato da un insieme di leggi - ovvero la possibilità per il dipendente di lavorare da casa, o da un co-working (spazi di condivisione di ufficio presenti in tutto il mondo, il più famoso in Italia è Talent Garden). Ma se è possibile per i dipendenti “delocalizzarsi”, e lavorare quindi da casa, oppure da un altro Paese, o da uno spazio di co-working, allo stesso modo è sempre più facile per una società trasferire interi dipartimenti aziendali all’estero dove, possibilmente, tasse e burocrazia sono più gestibili.

I dipartimenti più facilmente trasferibili risultano essere quelli che non richiedono una presenza fisica del dipendente. Pensiamo a chi si occupa dei sistemi informativi, chi segue l’assistenza clienti (magari telefonica o via e-mail), chi gestisce la grafica, le operazioni tecniche, la ricerca tecnologica. Si tratta in media di una percentuale che va dal 20 al 40 per cento dei dipendenti di una azienda di servizi. Una strategia messa in atto, fino ad oggi, da grandi multinazionali (Ferrero in Lussemburgo, Procter & Gamble in Belgio, Costa Crociere in Germania) che ora, per la facilità con cui e possibile farlo, potrebbe coinvolgere società più piccole, quelle che rappresentano il vero tessuto industriale e commerciale italiano.

La delocalizzazione rappresenta quindi una enorme opportunità per le aziende, ma un grande rischio per il nostro Paese, che potrebbe vedersi decimata la popolazione e gli introiti. Le aziende cercano Paesi in cui fare impresa non rappresenti né un rischio, né un ostacolo alla redditività. Quando i confini si riducono, e la flessibilità viene agevolata dalla tecnologia, l’incentivo a emigrare è ancora più forte, e non va sottovalutato. L’Italia oggi compete con la Svizzera (un’ora di treno da Milano), con l’Irlanda, con l’Olanda, con la Germania, con il Regno Unito. E la competizione, per ora, la stanno vincendo loro, attraendo capitali e imprese, anche italiane.

Esistono però alcuni, semplici ma efficaci strumenti che permetterebbero al Governo di ridurre o disincentivare questo fenomeno: la riduzione delle tasse, lo snellimento della burocrazia, e un generale miglioramento dei servizi del Paese (giustizia, fisco, infrastrutture). Un’azienda che ha scelto l’Italia venti o trent’anni fa, può e deve avere ancora l’incentivo e il desiderio di rimanere. Ma non bastano i paesaggi, la cucina o l’affezione, la dura legge delle aziende è la performance sui mercati, il Governo Renzi è avvertito: i prossimi mesi potrebbero rappresentare l’ultima vera chiamata alle riforme di cui il Paese ha disperatamente bisogno, per tornare a crescere e per convincere migliaia di aziende, a non delocalizzare.


di Elisa Serafini