No su banche e acciaio, l’Ue che affonda l’Italia

sabato 23 gennaio 2016


Il fallimento delle politiche di Matteo Renzi, almeno in campo europeo, viene da lontano. Per essere precisi dagli accordi stretti da Romano Prodi con governi nordeuropei e banchieri tedeschi. Accordi che da più di un decennio prevedevano l’azzeramento della quota siderurgica dell’Italia su base Ue. Accordi che da almeno un ventennio prevedevano la politica bancaria italiana non esistesse più, che gli sportelli degli istituti avessero solo forza di mera raccolta di un risparmio da riversare nelle banche tedesche.

La reazione di Renzi s’è dimostrata d’una ingenuità disarmante, rispondendo con un decreto “Salva Ilva” e con la proposta di creazione di una “bad bank” (una banca italiana in cui riversare le sofferenze degli istituti di credito). Entrambe le proposte non solo non sono gradite ai maggiorenti dell’Unione europea (tedeschi, olandesi, belgi, danesi e lussemburghesi) ma hanno immediatamente cagionato la sortita “l’Italia non ha più un governo credibile ed in grado di dialogare con le istituzioni europee”. Parole ispirate da Jean-Claude Juncker che, proprio in materia bancaria, gradirebbe che i depositi (risparmi degli italiani) in mano a banche in odore di sofferenza venissero trasferiti presso strutture europee controllate dalla Bce: ovvero una progressiva politica di controllo ed indirizzo del risparmio italiano da parte di istituti esteri. Parimenti, in campo siderurgico la Germania sarebbe propensa che la quota siderurgica dell’Italia passasse in mani indiane o cinesi, piuttosto che continuasse ad essere detenuta da mani italiane.

La situazione è tragica, da vera e propria guerra di conquista, anche se il ministro dell’Economia (Pier Carlo Padoan) tenta di gettare acqua sul fuoco “nessuna preoccupazione, la richiesta di informazioni inviata dalla Bce ad alcune banche italiane è stata inviata a molte altre banche dell’area euro ed è una prassi standard”. Il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, sa che l’Ue vuole affondare il Monte dei Paschi perché è il principale nervo scoperto di Renzi e dei potentati toscani collegati al governo. Un vero e proprio assalto al sistema italiano, utilizzando anche l’arma della Borsa, perché compagnie ed investitori esteri hanno ordinato ai propri armigeri cibernetici d’assalire il sistema anche con le trattative on line.

Una guerra dei potenti dell’Ue all’Italia che convive con focolai di guerriglia tra imprenditori italiani ed esteri, ed anche tra imprese e governo. E’ il caso dell’atto di citazione nei confronti della Presidenza del Consiglio per il decreto sull’Ilva: atto di guerra della famiglia Amenduni (storici soci dei Riva) contro il governo che avrebbe perpetrato un l’esproprio del complesso siderurgico.

“Lunedì gli azionisti di minoranza della ‘fu Ilva’ hanno depositato alla sezione specializzata in materie di imprese del Tribunale di Milano l’atto di citazione - scrive Paolo Bricco su Il Sole 24 Ore - gli Amenduni non sono finiti mai in nessuna inchiesta… Nelle pieghe dell’atto di citazione predisposto da Giuseppe Portale, ordinario di diritto commerciale alla Cattolica di Milano, Aristide Police, ordinario di diritto amministrativo a Roma-Tor Vergata e Giacomo D’Attorre, ordinario di diritto commerciale all’Universitas Mercatorum di Roma, si percepisce chiaramente il bisogno di trovare – in un contesto segnato in molti suoi aspetti da una irrazionalità pervasiva – una posizione non emotiva ma nitida, non agitatamente vittimistica ma neppure da agnello disponibile al massacro”.

I periti di parte hanno quantificato il valore di Ilva Spa, al 31 dicembre 2012, in 2,526 miliardi di euro. La quota riferibile alla Valbruna (cioè agli Amenduni) sfiora i 300 milioni di euro. Si tratta, si legge nell’atto di citazione, del “valore della quota di partecipazione della Valbruna Nederland B.V. nella società Ilva Spa al momento dell’esproprio di fatto determinato dal commissariamento ex d.l. 61/2013 (5 giugno 2013). Tale importo deve essere indennizzato dallo Stato-espropriante alla Valbruna Nederland B.V.-espropriata”.

Intanto il sostegno finanziario dello stato italiano all’Ilva finisce in un’indagine della Commissione europea, che per problemi di sovraccapacità siderurgica Ue ha già detto in più salse che l’Italia deve finirla di produrre acciai. Nel mirino dell’Europa ci sono i due miliardi di euro in aiuti: ecco perché il gelo tra Germania ed Italia è giunto dopo che la Legge di stabilità ha rivelato gli 800 milioni destinati a sanare il problema ambientale, e per garantire la ripresa degli altiforni. La commissaria alla concorrenza, Margrethe Vestager, ha risposto senza mezzi termini che “la migliore garanzia di un futuro sostenibile per la produzione siderurgica nel tarantino è la cessione delle attività dell’Ilva a un acquirente che le metta in conformità con le norme ambientali e le sfrutti a scopi produttivi”. La Vestager pensa che l’Ilva debba obbligatoriamente essere chiusa o finire in mani straniere, l’ipotesi italiana viene scartata a monte dall’Ue.

Di fatto l’Italia si ritrova in un cul de sac, una via senza uscita, costretta dall’Ue a sottostare ad una congerie di normative che impediscono la ripersa di settori come artigianato, pesca ed agricoltura. Come se non bastasse, l’Ue spinge sulla morte del siderurgico e sul commissariamento europeo dei risparmi italiani. Uscire dall’Euro come moneta suonerebbe d’utopia, certamente potremmo tentare una sortita dal sistema eurozona: ovvero uscire dal sistema di normative europee che non permette la ripresa economica.


di Ruggiero Capone