Gli azzeccagarbugli dell’informazione

martedì 5 gennaio 2016


Soprattutto in un Paese in cui è grande la confusione sul piano dell’economia e della finanza, da chi opera sul fronte dell’informazione televisiva ci si aspetterebbe almeno il tentativo di fare divulgazione, rendendo accessibili ai più gli aspetti più complessi dell’universo che gira intorno ai tanto ambiti quattrini. In subordine, se proprio non si riesce a rendere “commestibili” alcuni concetti di base, si può almeno restare ancorati mani e piedi a due fattori che chiunque è in grado di percepire: numeri e percentuali. Numeri e percentuali che, ahinoi, sembrano invece continuare ad essere ballerini per Marco Fratini (nella foto), caporedattore all’Economia del telegiornale di La7 e già recentemente autore di un racconto del tutto fantastico sul rating della fallita Parmalat.

Molto in breve, nel commentare l’anno borsistico appena concluso, Fratini ha messo in grande evidenza la crescita dell’indice azionario di Milano, di qualche punto superiore a quello registrato dalle principali piazze europee, Francoforte in testa. Tutto questo all’interno di un evidente sottinteso finalizzato a far scaturire nella testa dell’ascoltare la seguente domanda: tutto ciò dipenderà dalla presunta ripresina innescata dal Governo Renzi? Fratini non lo ha chiarito esplicitamente; tuttavia nelle sue ottimistiche affermazioni sull’andamento della Borsa abbiamo colto in filigrana una certa correlazione con la politica keynesiana in salsa fiorentina del mago di Palazzo Chigi.

A corollario di ciò, l’espertone economico di Enrico Mentana ha sparato in chiusura un numero che, soprattutto per chi opera in finanza da una vita, non ha molto senso. Secondo Fratini, infatti, la capitalizzazione complessiva dei titoli quotati nella Borsa italiana equivale a circa un certo del Pil nazionale. Ora, considerando la volatilità dei mercati finanziari e la rapidità con cui i capitali si spostano da una parte all’altra del globo, il dato non ha alcun valore, soprattutto se correlato all’andamento di una economia italiana che continua a zoppicare visibilmente.

Ma è sul dato storico relativo al nostro principale indice azionario - l’unico che conta seriamente in una analisi appena attendibile - che casca l’asino. Pochi ma micidiali numeretti lo dimostrano. Basti pensare che il Mib valeva intorno ai 44.400 punti nel maggio 2007, nell’imminenza della grande crisi di questi anni, e che a fine 2015 lo stesso Mib ha chiuso a meno di 21.500 punti, con un deprezzamento superiore al 55 per cento. Ma non basta, onde dimostrare che ci troviamo di fronte all’ennesimo rimbalzo del gatto morto per un Paese che non cresce, il raffronto storico con il nostro principale partner europeo, la Germania, risulta impietoso. Sebbene il Dax, l’indice dei titoli quotati a Francoforte, nell’anno passato si sia apprezzato meno del Mib, il suo andamento storico appare abbastanza in linea con quello dell’economia tedesca. Tant’è che nello stesso lungo periodo preso in considerazione per Piazzaffari, il Dax ha registrato un deciso incremento, con una crescita di oltre il 30 per cento nei valori azionari.

Questi ultimi, vorrei ricordare al buon Fratini, nei citati tempi lunghi tendono inevitabilmente a riallinearsi con il relativo trend economico. Ed è per questo che il valore della capitalizzazione di una piazza finanziaria in un dato momento, senza un adeguato raffronto storico, equivale a quello delle giocate al superenalotto o al totocalcio.


di Claudio Romiti