Bce: crisi economica e legittimità politica

venerdì 11 dicembre 2015


La crisi economica ha messo a dura prova l’autorità politica dell’Unione europea, sollevando questioni di legittimità normativa. L’Ue è un ordine normativo e la costruzione economica dell’unione monetaria (Uem) si posò su una teoria che ha posto l’accento sul valore normativo delle politicizzazione del denaro. Tuttavia, questa dottrina ha trascurato la logica normativa del meccanismo a due livelli implicito nell’Uem e, la necessità di un ordine costituzionale pubblico, imparziale e accettabile, funzionale al riconoscimento dei disaccordi.

Qualsiasi modello evolutivo della conformazione economica dell’Ue deve conciliare un ordine monetario europeo con la legittimità della governance degli Stati membri. L’Unione europea richiede un contratto a due livelli per soddisfare questi standard: gli Stati membri devono interagire tra loro in modo equanime ed essere allo stesso tempo rappresentanti e responsabili dei loro cittadini in modo equo. Tali criteri comportano una forma di legittimità politico democratica dell’Ue che Richard Bellamy e Albert Weale definiscono “republican intergovernmentalism”. Solo le norme prodotte da un costituzionalismo politico dei popoli d’Europa possono soddisfare gli standard di legittimità politicamente richiesti. Un tale processo si potrebbe ottenere attraverso il potenziamento dei Parlamenti nazionali nel processo decisionale dell’Ue.

La struttura definita “republican intergovernmentalism” è ritenuta un ordine normativo democratico in cui l’Unione europea prevede che i contratti tra gli Stati membri siano un meccanismo a due livelli all’interno del quale i dirigenti possono solo firmare accordi, in qualità di agenti debitamente autorizzati dai loro popoli. Il tentativo di visualizzare i vincoli di bilancio neoliberali del Fiscal Compact come una costituzione giuridico sovranazionale, collide con questo ordine normativo e, si palesa come ingiustificabile negare il ragionevole disaccordo tra i cittadini e gli Stati membri sulla politica economica.

L’attuale crisi economica è stata un importate banco di prova per l’Ue. Dal 2010, i suoi Stati membri hanno dovuto sviluppare, quasi improvvisando, politiche e processi volti ad affrontare la crisi, inclusi il Semestre europeo, un Patto di stabilità e crescita 1 rafforzato, il Trattato sulla stabilità, l’“European Financial Stability Facility (Efsf)” e il suo successore, l’“European Stability Mechanism (Esm)”.

La Banca centrale europea (Bce) ha intrapreso due round di operazioni di rifinanziamento a lungo termine per migliorare la liquidità bancaria – l’acquisto di debito sovrano – e ha annunciato la sua volontà di impegnarsi in vere e proprie transazioni monetarie, una politica che secondo l’economista tedesco, presidente della Bundesbank, Jens Weidmann equivale a “finanziare governi stampando moneta”. Secondo Weidmann “Anche la Germania si troverà ad affrontare sfide notevoli, ma il denaro a buon mercato non genera buona crescita”.

Secondo il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, a causa del rallentamento economico dei Paesi emergenti e della debolezza dell’andamento del mercato del petrolio, la Bce è stata costretta a diminuire le sue previsioni di crescita e d’inflazione nella zona euro. Il programma di acquisto in massa del debito sovrano da parte della Banca centrale europea non è riuscito a stimolare i prezzi e la crescita come Draghi sperava. La Bce delinea un rallentamento della crescita per l’anno prossimo e il presidente della Bce prevede anche un’inflazione negativa temporanea dovuta al decremento del prezzo del petrolio. Due sono i fattori basilari di questi fenomeni: la diminuzione della domanda mondiale e il rallentamento dei Paesi emergenti, soprattutto della Cina. Il colpo di freni dell’economia cinese incide negativamente sulle esportazioni dei Paesi sviluppati e sulla fiducia dei mercati finanziari.

Giovedì 3 dicembre il presidente dell’Istituto di Francoforte ha svelato nuove misure al fine di rianimare l’economia europea. Tre sono le principali misure rese note: una diminuzione dei tassi dei depositi da -0.2 per cento a -0.3 per cento, l’estensione del programma di acquisto dei debiti pubblici e privati (Qe - Quantitative easing) da settembre 2016 a marzo 2017, guardando oltre se è necessario e, l’inclusione all’interno di questo programma di nuovi titoli di debito, cioè titoli di debito degli enti locali e regionali dell’eurozona.

Sull’eventuale efficacia di queste misure gli economisti si sono mostrati divisi. Secondo alcuni l’attivismo di Mario Draghi palesa già i suoi frutti anche se ancora acerbi. Per Frederik Ducrozet, economista di Pictet Wealth Management, il credito bancario al settore privato si velocizza, gli indicatori macroeconomici migliorano gradualmente e, l’inflazione, che esclude i prezzi dell’energia, si riprende. Tuttavia secondo Ducrozet, occorre attendere almeno un anno per fruire integralmente degli effetti positivi del Qe. 2 Più dubbioso si mostra l’economista Patrick Artus di Natixis secondo il quale la politica monetaria non ha quasi più effetto sull’inflazione, Mario Draghi, ripetendo che farà di tutto per rilanciarla il prima possibile, si fa carico di grandi rischi. Il presidente dell’istituto di Francoforte rischia di perdere credibilità se fallisce, soprattutto in un arco di tempo di lungo periodo.

Seguendo l’esempio della caduta dei prezzi delle materie prime e dell’atonia dei salari, coinvolti da tassi elevati di disoccupazione (10.7 per cento della popolazione attiva dell’eurozona) o ancora della concorrenza dei Paesi con costi bassi, le cause di una debole inflazione in parte sfuggono al suo raggio d’azione.

Coloro i quali attendevano misure eccezionali per scongiurare il pericolo di deflazione dell’Eurozona sono rimasti probabilmente delusi dagli annunci del presidente della Bce. L’istituto di Francoforte proseguirà la medesima politica, continuando a far funzionare la planche à billets almeno fino al 2017. L’ammontare del Quantitative easing resta di 60 miliardi di euro per mese. La diminuzione del tasso dei depositi dal -0.2 al -0.3 punterebbe a far ribalzare il denaro iniettato come credito per i consumatori e per le imprese che intendono investire.

La prima reazione dei mercati non è stata positiva: vi è stata una caduta dell’euro e delle borse. Le dinamiche dell’euro sono in parte di utilità agli scopi della Bce. Il controllo dei tassi di cambio non è nel suo mandato, ma con un ammorbidimento dal punto di vista monetario, l’istituto di Francoforte ha scientemente ricercato un indebolimento della moneta unica aspirando a supportare le esportazioni di tutta Europa. Tuttavia la caduta dell’euro comporta un incremento dei costi delle importazioni. I prezzi delle merci provenienti dai Paesi terzi aumentano e ciò potrebbe dare una spinta all’inflazione. Draghi indossando le vesti più sobrie di un tecnico monetario spera in tal modo di spostare i riflettori sui leader politici spingendoli a sviluppare riforme strutturali capaci di accelerare la crescita.

Jens Weidmann, in un’intervista pubblicata il 17 settembre 2015 dal quotidiano “la Repubblica” e intitolata “Jens Weidmann: caro Draghi, la politica espansiva sta indebolendo la spinta riformista”, afferma: “[…] non possiamo usare la politica monetaria per estorcere le misure politiche consone alle nostre convinzioni. Si tratta di misure che devono essere deliberate dai governi e dai Parlamenti e di cui essi stessi devono assumersi la responsabilità. Solo questi ultimi dispongono della legittimazione democratica per attuarle. E non è neanche nostro compito quello di prendere tempo per agevolare la classe politica”.


di Danilo Turco