Sovranità perduta e politica evaporata

giovedì 12 marzo 2015


Giacomo Leopardi nello “Zibaldone” nel 1820 scriveva: “Se noi dobbiamo risvegliarci una volta e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere, non la superbia e la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna” (Leopardi, vol. II, pag. 228).

Se ci guardiamo con onestà non possiamo che provare quel sentimento descritto, è la storia melodrammatica di un grande Paese di individualisti e geni che ha contribuito alla costruzione della civiltà occidentale ma che non ha saputo costruirsi come casa comune.

Il Paese oggi sta vivendo una drammatica crisi d’identità tra una dominanza esterna che sembra governare i suoi processi decisionali lesiva della sua sovranità e la visione di una politica evaporata senza pensiero, creatività ed autorevolezza. Non vi è nemmeno quella minima traccia di orgoglio e dignità che consente di tenere alta la testa come l’aveva tenuta De Gasperi quando era andato a negoziare, in condizioni di grande debolezza, la sopravvivenza della nazione con i vincitori.

Siamo alla fine di un ciclo storico che ha travolto un modello socioculturale in cui le conflittualità vanno assumendo sempre più connotazioni primitive, si dimenticano gli orrori delle guerre e si subisce la dominanza di un pensiero unico che non accetta compromessi ma solo la ricerca di una suicida onnipotenza.

La crisi ha sovvertito l’ordine dei valori e delle priorità innalzando prima l’economia e poi la finanza come verità incontrovertibili anche di fronte all’evidenza della realtà che ne dimostra l’infondatezza scientifica delle ipotesi su cui si fonda.

Le “verità incontrovertibili” del neoliberismo hanno creato povertà, disuguaglianza, degrado morale, disoccupazione, lo sfaldamento della società e della famiglia, l’individualismo più sfrenato che normalizza la corruzione e i comportamenti illeciti eppure non ci si mette in discussione per gli interessi dominanti, queste disgrazie globali alla fine sono solo “danni collaterali”.

Infine, l’attacco del neoliberismo allo Stato ed al welfare ha separato la ricchezza dai Paesi ed il potere dalla politica che ne è diventata un'ancella da guidare; una politica debole e priva di idee e di pensiero che trova la legittimazione nella capitalizzazione della paura e nei nemici visibili ed invisibili da creare in continuazione ed in funzione degli interessi dominanti. Noi abbiamo fatto del nostro meglio per metterci nei guai, salvo poi cercare di dare la colpa agli altri quando però era troppo tardi. A questo ha contribuito il trasformismo politico di una classe dirigente che avendo perso il contatto con l’eredità morale dei padri fondatori cerca di rimanere a galla rinnegando i suoi valori storici e passando disinvoltamente da un’idea all’altra – un partito di governo che tradisce la sua storia e si sposa con il neoliberismo della finanza, fallito nei fatti ed un'opposizione senza idee ed argomenti che si è frammentata.

In questo modo ci esponiamo a forme coercitive esterne che ledono la nostra sovranità di Paese usando, spesso, l’arma della finanza. Il primo atto di uso della finanza come influenza politica sulla sovranità dei Paesi è riconducibile agli anni Settanta-Ottanta, quando gli Usa sganciando il dollaro dalla convertibilità in oro si trovarono nella necessità di agganciare l’eccesso di dollari in circolazione al petrolio – i petrodollari – convincendo gli arabi a vendere il petrolio solo in dollari ed aumentandone anche il prezzo. Noi come importatori ci trovammo a passare da un’inflazione del 4 per cento ad una del 24 per cento e con le domeniche in bicicletta. La caduta del muro di Berlino ha contribuito alla colonizzazione culturale della finanza che ci ha invaso con derivati, sub-prime, credit-default swap ed altri prodotti tossici che sarebbero da mettere sotto accusa; il debito è cresciuto a livelli non facilmente controllabili in un mercato governato da pochi – il 95 per cento delle transazioni in derivati passano solo per 5 banche d’affari di Wall Street – che determinano gli andamenti dei valori e li usano come strumento coercitivo. Il potere della finanza sovranazionale rischia, come dice Warren Buffet, di essere un’arma di distruzione di massa perché se il tuo debito è in mano ad altri diventi un soggetto passivo e subordinato.

Noi lo abbiamo sperimentato nella “campagna” d'Europa del 2010-2012, quando la necessità di indebolire l’euro e di mantenere l’instabilità in Medio Oriente per “combattere” l’atomica iraniana ha spinto ad un attacco finanziario a partire dal mercato piccolo ed illiquido dei titoli pubblici greci, per arrivare ad effetto domino a noi determinando un cambio di governance politica funzionale ad interessi diversi ed esterni al Paese.

L’andamento dei dati relativi agli andamenti del pil, del debito pubblico e del rating dal settembre 2011 ad oggi è di un’evidenza inattaccabile, si veda l’allegato grafico relativo all’andamento di tali variabili nel grafico di Bloomberg allegato (all. 1), che dimostra la giusta posizione della procura di Trani in merito al comportamento valutativo di S&P sul nostro rating; peraltro la stessa agenzia è stata condannata dal Dipartimento di giustizia Usa per manipolazione fraudolenta del rating così come le 5 banche d’affari di Wall Street per manipolazione dei dati sull’andamento dei valori degli immobili che hanno determinato la crisi dei sub-prime. Ma allora perché le hanno salvate? Poi tutto è peggiorato ed oggi siamo in una situazione di evidente debolezza sotto scacco della finanza, abbiamo un rating BBB-, spazzatura, ed uno spread a 100 b.p. b.p. sopra il bund tedesco sostenuto dalla tripla A, esattamente come nel novembre del 2010 quando il rating era ABB+ e 600 mld/euro di debito in meno (!); un’irrazionalità palese che dimostra l’opportunismo di misurazioni funzionali a forzare processi decisionali e quanto questa finanza – scienza mitologica – e lo spread-unicorno -, siano strumento di esercizio di dominanza.

Così non siamo in grado di decidere quasi niente, non sappiamo avere proposte per raccordarci con l’Europa, non siamo in grado di decidere se essere un paese federale o centrale, il ruolo che dovremmo avere nel Mediterraneo proponendoci come policy maker e difendere una forma di autonomia che portò il governo italiano nel caso di Sigonella ad opporsi alle minacce di Reagan senza paura. Subiamo in silenzio le sanzioni alla Russia di cui siamo il 4° partner commerciale con aziende in difficoltà che senza sbocchi commerciali non sono interessate allo Jobs act; finiamo per mettere, quasi di nascosto, nella Finanziaria a garanzia delle banche d’affari per i derivati fatti nel 1993 ben 37 mld/euro (?) che finiranno sul collo dei contribuenti.

Così, per distogliere l’attenzione da una politica evaporata, si rincorrono riforme, regolamenti, leggi, spesso fine a se stesse ed eteree in una perenne corsa su un surf per stare a galla ed in una situazione di dissesto. Infine, si propone come critica la riforma delle banche popolari in spa per “creare valore per gli azionisti”, il mantra delle banche d’affari, padre di tutte le disgrazie che ci hanno ridotto sul lastrico, e non si regolamenta il mercato. Noi non governiamo il vento, ma se non governiamo nemmeno le vele siamo allo sbando.

 

(*) Professore ordinario di Programmazione e Controllo Università Bocconi


di Fabrizio Pezzani (*)