Per invertire la rotta, un industrial compact

martedì 5 agosto 2014


Per invertire la rotta attuale, ci vuole un industrial compact che sostituisca il fallimentare e illegittimo fiscal compact. L’Europa ha incentrato tutte le proprie idee di politica economica sul nefasto rigore fiscale. In Italia siamo in deflazione e giungeremo presto alla recessione vera e propria. Sono necessarie politiche di rilancio economico in Europa come in Italia, dato che la Banca centrale europea non potrà supplire in eterno alle carenze delle politiche economiche dei governi europei, perché non le compete.

Bisogna potenziare gli investimenti europei finanziati con la Banca europea degli investimenti, con le Casse depositi e prestiti e con il bilancio comunitario (con project bonds o eurobonds su cui ha finora posto il veto la Germania). Avviare riforme strutturali nei singoli Paesi funzionali agli investimenti. Cominciare dal potenziare, a livello europeo, infrastrutture e industria, da cui, anche, la necessità di nomina di commissari competenti, non improvvisati, capaci. Sono infatti soprattutto gli investimenti che generano occupazione e redditi.

Si tratta di porre in essere una strategia industriale sinergica Europa-Italia/Paesi membri, in grado di portare lavoro e occupazione ai giovani, come a tutti. In tale nuovo corso economico, sarà bene tenere presente cosa è successo negli ultimi tempi, ovvero le trattative per la vendita di Alitalia e le manovre dei sindacati a tutela di se stessi, l’esodo dei ragazzi e degli imprenditori (in genere di chi può) dall’Italia e cioè la fuga da un sistema politico ed economico concepito e funzionante in maniera errata. Sarà bene vedere che le pensioni - lucrosissime quelle del passato e da rivedere oggi sfrondandole, come tutti i vitalizi - non ci sono più e ci saranno sempre meno in futuro, e vedere anche, ad esempio, che se il Colosseo o la Fontana di Trevi non vengono rifatti da un imprenditore - Della Valle o Fendi - con i guadagni delle scarpe o delle borse, non è in grado di restaurarli nessuno. Bisognerà tenere ben presente il caso Teatro Valle in corso di sgombero, o il fallimento del giornale comunista l’Unità in quanto non in grado di camminare autonomamente in un mercato funzionante.

Ma cosa deve fare il capitalismo per farci capire che è la strada da percorrere? Che deve fare ancora d’altro il comunismo e tutte le sue evoluzioni per rendere chiaro a tutti che è la via politica ed economica fallimentare della storia destinata a produrre danni e ad affamare le persone?

Le persone vogliono vivere bene e stare bene ed è lo Stato e l’idea stessa di Stato in Italia – e anche in Europa - da mutare per convertirsi in una nuova idea moderna e produttiva. Il lavoro è quello in cui si produce qualcosa, non è aspettare lo stipendio dello Stato. Ogni cosa lo dimostra. Guardare per credere. Ad esempio vanno benissimo le imprese italiane che stanno lontano più che possono dall’Italia, quelle cioè che esportano – facendo tra l’altro molto meglio delle loro omologhe di Francia e Germania - primeggiando soprattutto nei settori della farmaceutica, nella pelletteria, nei mobili e nei macchinari. Nonostante l’andamento sfavorevole dei cambi e il limitato accesso al credito all'esportazione, c’è stato un aumento degli operatori all'esportazione nell’ultimo anno 2013, incluse le semplici partite Iva. Per disperazione, oltre che per completa stagnazione della domanda interna, si intraprende la strada dei mercati internazionali.

Bisognerebbe implementare tale successo economico con un piano per il made in Italy. Sono tra le dieci e le quindicimila le imprese maggiormente integrate sui mercati esteri, trentamila quelle in posizione intermedia e settantamila che esportano in modo saltuario; bisogna spingere da quella parte e porre in essere una politica economica in loro favore. Snellire progressivamente e con determinazione lo Stato e aiutare le imprese italiane e chi produce. Bisogna incentivare il conferimento di capitale alle piccole e medie imprese in modo da aumentare, sia gli investimenti che l’accesso al credito a condizioni agevolate, per poterli realizzare. Investire in innovazione, ricerca e modernizzazione delle linee di produzione e dei prodotti, consentendo così l’ accrescimento del numero delle imprese in grado di stare e rimanere sul mercato internazionale.

Negli altri Paesi si va letteralmente a caccia di imprenditori e di imprese offrendo bassa tassazione, agevolazioni negli investimenti e forte sostegno all’export. Si impongono condizioni di lavoro molto diverse da quelle a cui siamo abituati. I cinesi che investono in Italia, ad esempio, oggi contrattano in entrata, cioè al momento dell’acquisto, e si assicurano l’assenza della presenza dei sindacati negli anni di attività, chiedono il taglio del costo del lavoro fino al trenta per cento e modificano i turni di lavoro – diurni e notturni -, quasi annullando le assenze per malattia e rivedendo i piani delle ferie preveendo la corresponsione di stipendi più bassi. E se gli italiani si oppongono, la trattativa termina, e mentre i cinesi vanno ad investire da un’altra parte, i lavoratori italiani restano a casa senza lavoro.

Fare impresa in Italia è difficilissimo. Si paga un’enormità di tasse, si ha pochissimo credito nelle banche, e c’è una burocrazia impeditiva lontana da principi di merito e di responsabilità di risultato. Siamo e si va verso un futuro fatto di giovani e italiani disoccupati, di imprese fallite e cedute all’estero. L’Italia è bloccata, divisa tra controllori e controllati, più ispezioni e controlli da parte di controllori, che produzione, attività e guadagni di controllati. Bisogna ridurre la tassazione e le imposte, creare posti di lavoro.

Mettiamola così, per non infierire ancora su questo governo (pure con Cottarelli in fuga!), i famosi ottanta euro, utili a Renzi per andarci al governo, agli italiani non bastano.


di Francesca Romana Fantetti