martedì 17 giugno 2014
Come da noi evidenziato nel recente passato il governatore Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa mensile di fatto ha affermato che il Quantitative Easing (Qe) “all’europea” è pronto per essere messo in campo. L’abbassamento allo 0,15 per cento del tasso di interesse, il tasso negativo di - 0,10 per cento per i depositi overnight fatti dalle banche presso la Bce e i 400 miliardi di euro di nuova liquidità alle banche che concedono prestiti a imprese e famiglie, non sono altro che il corollario delle prossime mosse che prevedono l’utilizzo di “strumenti non convenzionali”, come l’acquisto diretto da parte della Bce di asset backed security, titoli cartolarizzati basati su prestiti fatti al settore privato dell’eurozona.
Consapevole del ruolo nefasto che certi abs, soprattutto quelli legati al settore immobiliare, hanno avuto nello scatenare la crisi finanziaria americana nel 2007-8, Draghi ha voluto sottolineare che, tenuto conto delle nuove regole in discussione sui derivati finanziari, gli abs in questione dovranno essere “semplici, perciò non Cdo complessi, reali, cioè basati su prestiti veri e non su derivati, trasparenti, e quindi comprensibili per i sottoscrittori”.
La Bce quindi si sforza di spiegare che l’operazione sarà differente da quelle finora fatte negli Usa, in Uk e in Giappone, in quanto non si acquisteranno titoli di stato bensì si cercherà di facilitare la concessione di prestiti all’economia reale da parte delle banche. Almeno sul piano teorico la Bce cerca di evitare quelle politiche di Qe che hanno prodotto conseguenze negative e anche nuove bolle. Ad esempio, per i 400 miliardi di nuova liquidità le banche non potranno presentare prestiti-mutui concessi alle famiglie per l’acquisto di immobili in quanto una simile operazione fatta in Inghilterra ha prodotto l’anno scorso un aumento dei prezzi delle case dell’11 per cento.
Purtroppo però le scelte della Bce rimangono ancorate a due assiomi errati.
Il primo scaturisce dalla paura di deflazione derivante anche dall’incapacità di mantenere un tasso di inflazione intorno al 2 per cento. Occorre sfatare il mito che l’inflazione, anche quella controllata, sia un toccasana per l’economia. In un’economia ben funzionante, dove si ha un aumento della produttività a seguito di miglioramenti tecnologici e di una maggiore professionalità delle risorse umane, i prezzi tendono naturalmente a scendere. Ciò è un bene per i processi economici.
È vero comunque che una certa inflazione, magra consolazione, contribuisce a ridurre il debito pubblico. Ma è altrettanto vero che l’inflazione, in mancanza di aumenti salariali e di altre entrate, erode i redditi dei cittadini, riduce i loro livelli di vita e di consumo andando a diminuire la domanda e quindi tende ad incidere al ribasso sui prezzi. Ciò è avvenuto anche in Italia dove i cittadini e le famiglie hanno visto i loro redditi ridursi sensibilmente dall’inizio della crisi. È quindi errato misurare la necessità un “po’ di inflazione” in funzione del debito pubblico. Non può essere un’anomalia a determinare quello che dovrebbe essere invece un andamento virtuoso dell’economia. Il rischio di deflazione dipende dalla contestuale caduta dei redditi e della domanda, dalla restrizione dei processi economici e dalla mancanza di politiche di sviluppo e di crescita.
Il secondo assioma fuorviante è la pervicace volontà di veicolare la liquidità e il credito esclusivamente attraverso il sistema bancario così come esso è attualmente strutturato. Sei anni di salvataggi e di altri “esprimenti” monetari sono serviti soltanto a dimostrare che si è caduti nella “trappola della liquidità”. L’enorme liquidità messa a disposizione a basso costo dalla Banca centrale non è poi rifluita verso le famiglie, le imprese e nuovi investimenti, come avrebbero voluto i teorici dell’automatismo dei vasi comunicanti. Invece è rimasta parcheggiata nel sistema bancario! In parte ha comprato titoli di stato, in parte è stata depositata presso la Bce lucrando sul tasso di interesse, in parte si è mossa verso operazioni speculative e ad alto rischio.
Siamo convinti che anche Draghi sia consapevole di tutto ciò. La Bce però continua a ripetere argomenti triti per dimostrare che il suo mandato non le consente altre scelte. Questa impotenza progettuale non può essere portata a giustificazione. La storia ci può aiutare. L’America cominciò a uscire realmente dalla Grande Depressione del 1929-33 solo con il New Deal. Il governo del presidente Roosevelt allora definì una serie di grandi progetti di sviluppo nel campo delle infrastrutture, della modernizzazione dell’agricoltura, della regolamentazione delle acque, dell’edilizia popolare, delle nuove tecnologie creando posti di lavoro, nuova ricchezza e reddito. Lo fece anche creando strumenti creditizi che portavano risorse direttamente alle imprese e alle famiglie coinvolte nella realizzazione dei vari progetti. Anche la ricostruzione dell’economia nell’Europa del dopoguerra avvenne con lo stesso spirito, mettendo in campo lo Stato e i privati, i progetti di sviluppo e il necessario credito. Perché non progettare e avviare in tempi brevi un nuovo e moderno New Deal europeo?
(*) Sottosegretario all’Economia del Governo Prodi
(**) Economista
di Mario Lettieri(*) e Paolo Raimondi(**)