Fiat e Telecom, due destini diversi

venerdì 10 gennaio 2014


Dopo l’acquisizione del 41,5% di Chrysler, dal fondo sanitario Veba del sindacato Usa Uaw (United Auto Workers), Fiat è divenuto il settimo gruppo automotive mondiale con 4,4 milioni di veicoli prodotti, 88 miliardi di fatturato, 1,2 miliardi di utili e 215mila dipendenti. Nelle vesti della capogruppo finanziaria Exor raggiunge i 110,7 miliardi, restando dietro solo a Eni e superando per utili anche l’1,03 miliardi delle Poste. Tutti dati capaci di giustificare le odi e le lodi per l’impresa della ex famiglia Agnelli e l’immediato trionfo in Borsa con una crescita del titolo del 16%, a 30 euro per Exor e quasi 7 per Fiat. Viene immediato il confronto con i tanti humor e rumor che circondano invece, dopo la lotta intestina dell’ultima assemblea, Telecom Italia.

Se la Fiat è la prima della classe, capace di una grande conquista internazionale senza prestiti e aumenti di capitale, Telecom è invece l’ultima, inclusa da Mediobanca nella speciale classifica delle aziende con perdite maggiori (6,5 tra 2011 e 2012), peggio di Finmeccanica (meno 3,1 miliardi in due anni), Rcs (-831 milioni) ed Edison (-790 milioni). Il suo debito pesa per il 130% del fatturato, il suo titolo vale 0,75. Sembra che solo le critiche del giornalista economico del Corsera, ora deputato, Mucchetti (Pd), possano accomunare le due società. Per meglio misurare la distanza tra i due management, automobilistico e digitale, si attendono solo le poche settimane che separano dalla vendita di Tim do Brasil, giorno in cui l’attuale apogeo del primo toccherà il minimo storico del secondo. In realtà le cose non sono come vengono dipinte.

Mercato, legge della domanda e dell’offerta, preferenze del consumatore non contano così tanto. Sono fattori che riguardano e assillano i piccoli negozianti e produttori. La grande economia, quella destinata a guidare, sostenere e improntare la produzione generale e di conseguenza la vita quotidiana, dipende da altro e questo altro è la finanza ma solo fino ad un certo punto. Ciò che detta il risultato alla fine è la politica, di cui quella partitica è solo una parte. Ciò che sono oggi Fiat e Telecom dipende fondamentalmente dalla politica generale, non espressamente partitica. La scalata Fiat sul terzo automotive Usa è rientrata nelle politiche di Obama, cui si deve anche il comportamento del sindacato Uaw che non a caso ha venduto le sue quote in GM.

Il merito degli uomini della casa torinese è stato, secondo un trend storico, conquistarsi il favore dei politici che contano. In passato Giolitti, il Duce, i democristiani, i comunisti; oggi la Casa Bianca. Dal 2009 Fiat ha ricevuto gratis il 35% della Chrysler grazie a tecnologie, premio d’export, motori Fire ed ecologici. Un altro 22% è stato anticipato da 10 miliardi di prestiti di Usa e Canada. Ora la metà che mancava la pagherà a tranche con i soldi stessi dell’azienda di Detroit. L’italo-canadese Marchionne è stato il capitano coraggioso di Obama, cui premeva soprattutto che Chrysler non fallisse, al punto da rimetterci qualche miliardo. Il manager lo ha ripagato dimostrando di saper tenere in piedi una grande impresa, con l’aiuto non di poco conto della pace sindacale interna, dei salari più bassi, delle condizioni di lavoro peggiori.

La leggenda dice che Fiat ha sempre voluto una grande alleanza in America. Si fa riferimento all’accordo del 2000 con GM che doveva portare alla fusione tra le due case. È vero che per la Fiat il modello fordista fu la stella polare, ma quanto alle joint venture, l’avvocato Agnelli, celebre battutista, aveva un’idea chiara e realistica. Le jv non esistono. Esiste solo chi compra e chi vende. Infatti, Agnelli rischiò prima della morte del 2003 di vedere il tracollo. Solo i trucchi finanziari, esibiti nel momento più nero, quando si trattava di vestire i panni di un topo gigio brutto e lezzo, inimmaginabile dal gatto GM che con il 20% di Fiat in pugno l’aveva ormai alla sua mercé, salvarono la famiglia. Il gatto sputò la preda: quasi 7 miliardi pur sciogliere l’acquisizione.

Trucchi e invenzioni furono raccontati con ammiccante simpatia sottotraccia, come se la mano de Dios quel giorno avesse inventato una delle sue gambetas vestendo bianconero. A quel tempo accanto ad una Fiat moribonda, nel bel mezzo dell’esplosione delle newco tecnologiche, Telecom si trovava nel bel mezzo di un grande mercato in crescita, quando ancora il Gsm europeo manteneva la leadership mobile sulle aziende Usa. Telecom, tra l’altro, era stata affidata, nella ricerca di buoni manager, anche alla Fiat, che se ne era liberata come mera operazione finanziaria. Da quel momento, le due storie assumono percorsi paradossali. L’automotive, immerso in un settore produttivo maturo, dal declino strutturale, dribbla il suo destino, si attacca a trattori e camion, nel calo dell’auto; sempre contando sul consistente aiuto erariale; finché non incontra un politico all’altezza della globalizzazione. All’altra, digitale, dentro il settore merceologico del futuro, toccano le disgrazie peggiori. La politica l’ha ceduta, ma le impone i peggiori manager, gli ostacoli più strani, le poche liberalizzazioni effettive, le operazioni finanziarie più in perdita.

Soprattutto una pioggia torrenziale di scandali, azioni giudiziarie, stati maggiori che sparano sulle truppe. È qui che si vede cosa possa fare la politica in senso lato. Cosa possa fare la stampa, la magistratura, la finanza, la politica estera. Come Fiat sia stata capace e messa in grado di usare tutti questi fattori. Come questi fattori abbiano trattato Telecom. Fiat è un’azienda che gode di ottima stampa; anche perché ne possiede parecchia. Senza lesinare l’ha sempre considerata, dai tempi di Rizzoli fino a Della Valle, strategica. Così è riuscita a restare immune dalla ventata anticapitalista distruttiva che squassa quasi tutte le imprese, da prima, mentre e dopo di Mani Pulite. Non è rimasta coinvolta, né da uomini simbolo alla sbarra, né dalle reti distributive del Sud in odore di mafia. I media sinistri in tutto, sono divenuti, al comparire del logo bianco in campo rosso, voci da imperialismo privato.

Ciò che è buono per la Fiat, è buono per l’Italia, diceva l’Avvocato. Tutt’oggi, anche i Paesi sono coccolati o deprecabili se interessano o meno al Lingotto. Si parla dell’occupazione Fiat, gonfiando i numeri a 300mila quando nei suoi 6 stabilimenti attivi lavorano 20mila operai ed a votare a Mirafiori erano in 4500, un terzo dei dipendenti Telecom di Roma. Non stupisce che grandi sindacalisti si complimentino per un evento che precede la futura collocazione del gruppo del newyorkese Elkann a Wall Street e non più a piazza Affari. Clemenza è la parola d’ordine al suo passaggio, dalla giustizia ai servizi, dalla finanza alla politica. Si ha un bel dire del braccio di ferro in corso da 3 anni tra Marchionne e il sindacato Fiom. Una lotta condotta contro altri sindacati e partiti che non ha fermato l’imponente cassa integrazione in vigore per 16700 operai (1800 dell’abbandonata Termini, fino a ottobre 6600 a-Mirafiori e Grugliasco, 4mila a Cassino, 2mila a Pomigliano, 2300 a Melfi), tre volte quelli 6200 attivi di Atessa da scaricare un giorno al socio Peugeot.

Destino opposto ha avuto la un tempo quinta azienda tlc mondiale, Telecom, cui si è fatto toccare il fondo dei minacciati commissariamenti, delle accuse di spionaggio, dei falso in bilancio, delle truffe, senza alcuna clemenza. È curioso che uno dei primi bersagli di Grillo, nei comizi teatrali fosse proprio Fresco (accusato di terrorismo elettrico), forse l’unico in Fiat che avrebbe accettato l’assorbimento in GM; e che uno degli ultimi fosse Tronchetti, al passaggio dell’alleanza con la Sky di Murdoch. L’acquisizione di Telecom da parte della società Telefonica ha provocato per reazione la nascita di un fronte contrario che in assemblea a dicembre è risultato inferiore solo dello 0,3% alla proprietaria Telco e che risulterebbe decisivo in un'assemblea straordinaria. Per alcuni opinionisti, tanto basta a garantire che Telefonica rinunci a Telecom ed a eliminare la presenza italiana nelle tlc del Brasile. Telecom non è Fiat, però.

C’è poco da contare sulle azioni della magistratura, invocata da Consob, sull’influenza del Quirinale, sulla nuova legge Opa proposta da Mucchetti-Mattioli. I rumors di grande chiarezza indicano entro gennaio la vendita di Tim do Brasil. Il dibattito, apparso in superficie nell’assemblea decembrina, è solo sul prezzo. Sette miliardi troppo pochi, 15 un sogno ad occhi aperti. C’è poco da illudersi. Il declino di Telecom preannuncia una serie di grandi merger europei e successive acquisizioni americane che creeranno l’auspicato mercato interno. Un mercato interno che non sarà il Connected Continent, ma il Connected Atlantic, un grande settore tlc accomunato dai monopolisti Usa (con capitali asiatici). Scandali, clamori, denunce domenicali, grilli e corvi di solito non trattano delle cose fondamentali. Una di queste è il divario tra i settori automotive e digitale. Sul primo incombe il declino strutturale.

Domanda complessiva calante, condizionamenti politici eccessivi dei paesi del petrolio, invivibilità urbana, inquinamento pretendono un cambiamento generale di impostazione. La libertà di muoversi di un tempo è divenuta la catena di spostamenti obbligati senza senso. In futuro si dovranno utilizzare mezzi elettrici; poi nella guerra tra distributori di petrolio ed elettricità, la massa smetterà di muoversi. Il digitale automatizzerà tante cose, anche troppe, aumentando le disuguaglianze. Restituirà però all’uomo tempo e libertà, facendo muovere le cose e non le persone. L’automotive è il passato, il digitale è il futuro. Le principali imprese occidentali, nonché Paesi fondamentali per l’equilibrio generale, direttamente o indirettamente appartengono al primo, luogo storico anche per le organizzazioni di massa.

Devono avere il tempo economico idoneo per convertirsi. Per ora i sostegni che contano nel cercare un punto di equilibrio non traumatico proteggono il primo a discapito del secondo. Fuori dalle nebbie della propaganda, i conti dicono che Exor ha 50 miliardi di debiti in pancia, Fiat 14, Chrysler 9. La prima della classe parte da meno 28 miliardi di debiti sommati. Per di più in Italia Fiat immatricola lo stesso numero di auto degli anni Cinquanta. La Telecom ha un debito inferiore, una massa di clienti destinati a crescere in una società sempre on-line. Soprattutto oggi, al suo momento più basso, è capace di produrre un utile da 1,5 miliardi, superiore a quello Fiat. Il settimo gruppo automotive mondiale avrà bisogno ancora di importanti giochi di prestigio finanziari per sostenersi. Resta il disagio per l’ex quinto operatore tlc che, con analoghi manager e capacità finanziarie, avrebbe potuto veramente imporre il digitale come principale settore economico nazionale. Qualcuno penserà che qui si voglia sostenere che Borse e finanza non capiscono le cose. Nient’affatto, le capiscono benissimo.

Capiscono che solo l’allineamento ai trend politici garantisce i guadagni. Capiscono che il trend politico sosterrà un gruppo automotive sull’attenti agli ordini di Obama, ininfluenzabile da altri interessi del settore Usa, comunque sostenuto dal suo paese d’origine, qualunque cosa faccia (e non faccia). Capiscono che lo stesso trend martellerà sulle tlc europee, soprattutto sulle più deboli e indebitate, perché la loro partecipazione passiva, quand’anche suicida, alla nuova economia Internet è fondamentale per la compattezza economica occidentale, messa in forse dallo sviluppo disomogeneo degli Stati nazionali. Anche l’Italia così a sua insaputa partecipa alle decisioni della grande economia mondiale, con la prima e l’ultima della classe. La prima è ormai andata oltreoceano, Requiescat e non Fiat. La seconda, a seguire, senza neanche gli squilli di tromba per il trionfo né le salve per l’onore delle armi.


di Giuseppe Mele