Perché serve una rivoluzione culturale

martedì 17 luglio 2012


Forse è superfluo tornare sull’argomento perché è fin troppo chiaro che la spending review non riguarda tanto tagli strutturali, quanto un cambio di destinazione di soldi pubblici che nei prossimi anni verranno spesi comunque, ma non si può non insistere sull’insensatezza di determinate scelte. È troppo facile usare la mannaia a caso e poi sostenere che sono le lobbies e gli interessi particolari a mettersi di traverso per proteggere il proprio orticello.

C’è indubbiamente del vero in questo, nessuno nega che l’Italia sia un paese corporativo, ma ci sono delle ragioni precise per questo, ragioni che sarà il caso di approfondire. Ma procediamo per gradi. È apprezzabile il cambio di rotta (di forte impatto culturale, soprattutto) sugli statali, ed è giusta la razionalizzazione di uffici e servizi pubblici, ma i criteri con cui sono stati scelti i destinatari della cancellazione sono incomprensibili. Per i tribunali si è parlato di produttività, ma se si fosse proceduto con questo principio non rischierebbero uffici piccoli e ben organizzati, che forniscono buoni servizi ed hanno un oggettivo alto tasso di efficienza. E lo stesso vale per i tagli alla sanità, che riguardano posti letto, forniture farmaceutiche e convenzioni con i privati. Passi la chiusura di strutture molto piccole (anche se non di rado offrono ottimi servizi), e speriamo che non si creino disagi tali da privare qualche comunità di un ospedale nel raggio di decine di chilometri, ma per il resto non chiamatela proprio spending review.

Sprechi, disorganizzazione e politicizzazione dei vertici delle aziende ospedaliere (le tre cause principali dei costi di tali strutture) non vengono neanche sfiorati, mentre si riducono ulteriormente i già insufficienti servizi ai malati. Ha senso quando ti può succedere di arrivare al pronto soccorso di un grande ospedale romano in pericolo di vita e non avere alcuna speranza di essere ricoverato? Quando per curarti un certo tipo di lesione un caporeparto ti spiega che esiste un programma molto avanzato, in grado di calcolare al millimetro la riduzione del perimetro della ferita, ma che – non essendoci speranza che l’azienda lo compri – sta tentando di procurarselo più o meno lecitamente? O quando chiami il cup per prenotare una visita ortopedica e ti dicono che le prenotazioni sono chiuse e nessuno sa quando riapriranno, forse il prossimo anno? Questa è la sanità italiana. Un sistema disastrato che rende difficile persino finire nelle mani dei bravi medici, che pure ci sono e sono tanti.

È difendere il proprio orticello sostenere che i tagli ai servizi sono l’ultimo torto al cittadino da parte di uno stato ingordo ed elefantiaco incapace di mettersi a dieta? Volete tagliare? Bene, allora controllate cosa funziona e cosa no. Fate lavorare la Corte dei Conti, abolite le province (tutte), gli enti pubblici (una miriade) inutili quando non dannosi, le consulenze esterne, gli osservatori, i gruppi di lavoro, le agenzie, le facoltà universitarie con indirizzi ridicoli nate come funghi negli ultimi anni. Tagliate i fondi alle associazioni costituite sul nulla e a quelle no profit (purtroppo ce ne sono) che invece di occuparsi del bene altrui con i sussidi statali pagano feste e cene, alle fondazioni che non producono niente, alle aziende che non li meritano. Mettete un freno alle autonomie, ai palazzi di rappresentanza, alle auto blu, ai convegni, a voi stessi, alle vostre spese. Non chiamate spending review tagli secchi orizzontali che non produrranno altro effetto che mettere definitivamente in ginocchio chi è ancora in piedi nonostante lo stato.

E veniamo al corporativismo. Si potrebbero citare molte ragioni storiche per cui in Italia è così radicato, ma ci si può limitare a dire perché nessuna spending review lo sradicherà. Perché in Italia se non fai parte di qualcosa non sei niente, non esisti. E non nel senso che non sei importante o ben introdotto in ambienti elitari: nel senso che non sei in grado di ottenere e far valere quelli che sulla carta sono i tuoi diritti. C’è una differenza abissale tra chi usa amicizie e conoscenze per ottenere privilegi o per occupare posizioni che non merita, e chi sa che le liste d’attesa negli ospedali sono fatte con la matita e la gomma e se non ha un referente rischia di veder slittare il suo intervento, o quello di una persona cara, a tempo indeterminato. In Italia devi poter contare su qualcuno per avere una vita normale.

Chi si accorge dei lavoratori non iscritti a qualche sindacato? A chi interessano i problemi delle categorie che non scendono in piazza, non paralizzano il paese o non spaccano qualche vetrina? Cosa può il singolo cittadino, da solo, contro la burocrazia e l’apparato pubblico? Se in Italia non esiste solo la mafia - intesa come criminalità organizzata - ma soprattutto una mentalità mafiosa, cioè l’idea che per ottenere le cose, anche quelle legittime, sia necessario appartenere a qualcosa, avere un amico, è perché la società civile come insieme di individui che hanno un peso specifico in quanto singoli cittadini non conta nulla. E questo è colpa dello stato, non del dna corporativo degli italiani. È colpa di uno Stato che invece di fondarsi sull’individuo e la libertà dei singoli si basa sul lavoro (concetto quantomai astratto quando diventa valore fondante), e sui partiti (che infatti hanno svolto un ottimo ruolo di uffici di collocamento), ed è bravissimo a prevaricare e latitante quando si tratta di garantire, proteggere, tutelare, servire e rispettare il cittadino. Le lobby all’italiana nascono, crescono e proliferano tra i buchi delle maglie istituzionali, e per sradicarle ci vuole una rivoluzione culturale che colpisca in primis l’apparato più corporativista del paese: lo stato. Altro che spending review.


di Valentina Meliadò