giovedì 17 maggio 2012
In queste ore cruciali per l'Europa e l'euro monta sempre di più la retorica anti-germanica. Ma le critiche, in parte fondate, alla gestione della crisi greca da parte europea, quindi del direttorio franco-tedesco, rischiano di trascendere in ridicole teorie sul "complottone" teutonico, in grotteschi nazionalismi alle vongole, ma soprattutto - ancor più grave - in una irresponsabile auto-assoluzione collettiva da parte dei paesi che con le loro sciagurate politiche di bilancio sono i veri responsabili della crisi. Atteggiamenti comprensibili nei cittadini, ma che assumono connotati delinquenziali quando se ne fanno interpreti le classi dirigenti.
La gestione europea della crisi si è rivelata fin dall'inizio un pastrocchio: decisioni tardive e contraddittorie, miopia politica e ignoranza economica. La Germania, come paese leader, ne porta ovviamente gran parte delle responsabilità. Ai tedeschi si può imputare la vera e propria ossessione per l'inflazione, una certa rigidità diplomatica, l'aver pensato in primis ai propri interessi nazionali sottovalutando il rischio sistemico. E certo non è stato un fattore secondario che le loro banche, insieme a quelle francesi, fossero le più inguaiate con i titoli greci.
Detto questo però, la colpa della crisi non è dell'euro, né dei tedeschi, i quali secondo alcune teorie se ne sarebbero avvantaggiati a discapito degli altri paesi; e né Berlino né la Bce hanno mai imposto ad alcun paese un'austerità recessiva, fatta di sole tasse, niente tagli alla spesa e nessuna vera riforma per la crescita. Anzi, Ue-Bce-Fmi-Ocse suggeriscono da anni l'opposto.
I vantaggi dell'euro, soprattutto per i paesi mediterranei, sono stati enormi. Peccato che non hanno saputo sfruttarli. Dalla seconda metà degli anni '90 fino al 2007-2008, grazie alla "garanzia" tedesca, noi italiani abbiamo goduto di tassi d'interesse reali molto bassi sul nostro debito. Per oltre un decennio, la spesa per interessi sul nostro debito è scesa notevolmente, fino a dimezzarsi. Ma come abbiamo usato questi risparmi di decine di miliardi di euro? Non abbiamo tagliato le tasse, riducendo quindi i costi d'impresa e sul lavoro per renderci più competitivi; e nemmeno li abbiamo investiti in infrastrutture secondo il credo keynesiano. Fino al 2010 abbiamo continuato ad aumentare la spesa primaria improduttiva. Del medesimo vantaggio hanno goduto anche greci e spagnoli. Nel febbraio del 2005 lo spread tra il Bund decennale tedesco e l'equivalente greco era praticamente nullo, nonostante il rilevante divario tra i due paesi nelle valutazioni delle agenzie di rating.
Fino al 2005 la Germania, che veniva dall'enorme sforzo della riunificazione, non cresceva né esportava più di noi. Solo dopo le riforme strutturali dei governi Schroeder-Merkel - nulla di selvaggiamente liberista: diminuzione della spesa e della pressione fiscale nell'ordine di 5-6 punti di Pil, riforma del lavoro e del welfare - l'economia tedesca ha ricominciato a viaggiare come una locomotiva, la disoccupazione a calare e le esportazioni ad aumentare. Certo, un'area commerciale più ampia come l'Eurozona è stata un vantaggio, ma non c'entrano la svalutazione dell'euro rispetto al marco, dato che proprio negli anni del boom tedesco l'euro si era rafforzato del 40% rispetto al dollaro, né i tassi di interesse sul debito, a quell'epoca molto vicini ai nostri. La differenza, dovremmo capacitarcene, l'hanno fatta le riforme strutturali che in Italia, come in Grecia, ci ostiniamo a non fare. Con la crisi del 2007-2008 l'incantesimo si è rotto, le differenze tra i vari Paesi dell'area euro in termini di disciplina di bilancio e di produttività, tenute fino ad allora nascoste dall'euro e da una maggiore propensione al rischio da parte dei mercati, sono esplose.
Oggi la differenza di rendimenti tra Btp e Bund, o tra Bonos e Bund, è esagerata, frutto della crisi più che di meriti e demeriti dei singoli paesi; ma né più né meno di quanto fossero artificiosi i bassi tassi di interesse tra il 2000 e il 2008. È noto il vizio d'origine dell'euro, alla base dello scetticismo di molti economisti sulla tenuta della moneta unica: la profonda diversità delle politiche di bilancio e delle economie dei paesi dell'Eurozona. Perché la sfida fosse vinta i bilanci e la produttività dei singoli paesi avrebbero dovuto convergere e i mercati di beni e servizi integrarsi. Abbiamo avuto all'incirca un decennio di tempo, ma il divario è addirittura aumentato e l'integrazione dei mercati non è ancora completa. È colpa dei tedeschi aver saputo tenere i conti in ordine e nel frattempo aumentare la loro produttività, oppure nostra, che ci siamo adagiati sugli allori e abbiamo fatto addirittura calare la nostra produttività?
Adesso, per ridurre lo squilibrio strutturale nell'Eurozona, qualcuno vorrebbe persino che siano i tedeschi a scendere al nostro livello (aumentando del 6% gli stipendi, quindi riducendo la loro competitività), anziché noi provare ad avvicinarci al loro. L'errore di fondo è stato probabilmente non lasciar fallire Atene e voler costringere i greci a farsi salvare quando non volevano essere salvati. Vengono descritti come vittime della "cattiveria" tedesca ed europea, ma allo stesso modo si potrebbe sostenere che l'euro, l'Italia o la Spagna sono ostaggio dei loro annunci e delle loro scelte irresponsabili. Siamo ancora in democrazia: i greci hanno in mano il loro destino, il che non significa però che le libere scelte non abbiano conseguenze anche severe. Nessuno dice che debbano eleggere un governo che piace a Berlino, solo che non possono pretendere un salvataggio a fondo perduto. E i leader europei hanno il dovere di chiarire le conseguenze delle loro scelte.
di Federico Punzi