venerdì 4 maggio 2012
Dopo oltre cinque mesi di teatrino la spending review non ha partorito alcuna ipotesi dettagliata di tagli alla spesa pubblica, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma solo l'ennesimo rinvio e nuove chiacchiere. Le uniche decisioni sulla spesa del governo Monti sono l'istituzione di un nuovo altisonante comitato (il «comitato dei ministri per la revisione della spesa») e la nomina di Enrico Bondi alla funzione di «commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi» e di altri due consulenti. Tutto qui.
Un nuovo passaggio ricognitivo, dunque, che decreta il fallimento del lavoro del ministro Giarda, a quanto si apprende intralciato persino dalla Ragioneria generale dello Stato, e che malcela un intento a dir poco dilatorio da parte del governo. Si passa di comitato in comitato, di commissario in commissario, senza mai decidere nulla di concreto sulla spesa, mentre in un batter d'occhio vengono decisi aggravi fiscali a carico dei cittadini. Adesso ci si affida ad un "risanatore" di valore indiscusso, ma rispetto alla trentennale esperienza di Giarda nel campo totalmente digiuno di bilancio statale. Suona come una beffa l'incarico (finanziamenti ai partiti e ai sindacati) all'ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, pensionato d'oro e uno dei simboli della casta degli sprechi, mentre si ha la spiacevole sensazione che la consulenza richiesta (aiuti alle imprese) al professor Francesco Giavazzi nasconda l'intenzione di togliere per un po' di tempo la sua firma dai giornali, o quanto meno di depotenziarne le critiche. Ma nel dibattito sui tagli alla spesa c'è una mistificazione da denunciare e un grande equivoco di fondo da chiarire.
E' falso che ridurre la spesa pubblica produca effetti recessivi. E comunque è enormemente più recessivo aumentare le tasse. Sono le esperienze degli altri Paesi assimilabili al nostro per grandezze socio-economiche e politiche a dimostrarlo. A maggior ragione per i livelli abnormi di spesa e di tassazione nel nostro Paese, ridurre la spesa non è recessivo, è recessivo non farlo. Anche ieri il governatore della Bce Mario Draghi, ma altri autorevoli organismi internazionali ce lo ripetono, è tornato a indicare un modello di austerità "virtuosa", ossia meno recessiva, che i governi dovrebbero perseguire: «Meglio tagliare le spese che aumentare le tasse». E in particolare la spesa corrente piuttosto che la spesa per investimenti. Anche se è «comprensibile» che nell'emergenza i governi abbiano scelto «una strada più breve, più facile», perché «è più difficile e complesso ridurre la spesa» che alzare le tasse.
Il grande equivoco riguarda il target della spending review. Anche ammesso che il nuovo comitato e il nuovo commissario riescano nei compiti loro assegnati, l'obiettivo che il governo si è posto in termini di spesa «rivedibile» e di risparmi da ottenere è davvero ridicolo per un Paese in cui la spesa complessiva ha ormai oltrepassato il 50% del Pil. A breve termine, la spesa «rivedibile» è di appena 80 miliardi, il 10% del totale. E «nell'attuale situazione economica» l'intervento di riduzione cui mira il governo è di 4,2 miliardi per i restanti sette mesi dell'anno in corso, nemmeno lo 0,3% del Pil. Nessun obiettivo, invece, per gli anni futuri. Insomma, si tratta di eliminare qualche spreco, di razionalizzare, contenere e innovare la spesa, per renderla più efficiente, per salvaguardarla, non di ridurla strutturalmente per restringere il perimetro dello Stato.
D'altra parte, le previsioni di finanza pubblica per i prossimi anni contenute nel Def parlano da sole. La linea è diametralmente opposta a quella suggerita dalla Bce e da tutti gli organismi internazionali: il risanamento, il pareggio di bilancio, vengono perseguiti attraverso l'aumento della tassazione, e facendo affidamento su stime ottimistiche di crescita del Pil, mentre la spesa corrente al netto degli interessi non solo non scende ma continua a crescere. Dal 2011 al 2014, anno del previsto azzeramento aritmetico del deficit, le entrate correnti - le tasse - cresceranno di oltre 90 miliardi. Circa 60 miliardi serviranno ad azzerare o quasi l'indebitamento netto; gli altri 30 miliardi a finanziare oltre 30 miliardi di nuova spesa corrente, di cui 15 miliardi al netto degli interessi passivi, mentre le spese per investimenti subiranno una sensibile contrazione.
Insomma, più tasse ma anche più spesa corrente e meno investimenti. Parlare di spending review ha ormai il sapore della farsa, che trascende addirittura in provocazione quando viene chiesto ai cittadini di suggerire loro stessi dove tagliare: cosa sono stati chiamati a fare i "tecnici"? Come se non bastassero decenni di studi, rapporti, paper, commissioni. Ce ne vogliono altri. Alesina e Giavazzi riconoscono al governo almeno le «buone intenzioni», ma è ormai arduo non sospettare la malafede. Il bilancio pubblico è molto complesso, ma si sa benissimo dove tagliare. E' sempre più evidente che manca la volontà politica di farlo. Ci fosse, basterebbe un decreto, come lo scorso dicembre sulle pensioni, anch'essa materia complicatissima, il che non ha impedito al ministro Fornero di preparare e far approvare una riforma in pochissime settimane.
Ma facciamo finta di rispondere alla richiesta di aiuto del governo. Solo nelle ultime settimane si sono susseguiti innumerovoli suggerimenti da parte di autorevoli economisti e commentatori. Per citarne solo alcuni, Oscar Giannino ha indicato il settore della sanità (20 miliardi in tre anni), la massa salariale pubblica (35 miliardi in tre anni, senza buttare per strada nessuno) e i trasferimenti alle imprese (25 miliardi), per un totale di 80 miliardi di risparmi, oltre 5 punti di Pil, in tre anni. Alberto Bisin e Alessandro De Nicola su "la Repubblica" hanno suggerito di tagliare i contributi alle imprese (14 miliardi), vendere la Rai (3-4 miliardi) e asset pubblici (per 20 miliardi), e in più di risparmiare altri miliardi dall'accorpamento di scuole e tribunali, dall'attuazione dei costi standard nella sanità, dal taglio dei costi della politica e dallo sfoltimeno di organici pletorici. Il tutto escludendo le riforme cosiddette liberiste, limitandosi a quei tagli alla spesa che «non cambiano l'impianto sociale del Paese». Michele Boldrin ha proposto di tagliare i costi della casta politico-burocratica (5-7 miliardi), di 5 e in alcuni casi 10 volte superiori che negli altri Paesi europei paragonabili all'Italia; gli stipendi pubblici, riportandoli ai livelli del 1995 (0,8-0,9% del Pil); e i sussidi alle imprese (20 miliardi). Per un totale del 3% del Pil. Sono solo alcune, ma le proposte non mancano, e le competenze nemmeno. A latitare è solo la volontà politica.
di Federico Punzi